Friday, April 19, 2024

32/2012

Photo: Romolo Tavani
Text: Marina Maddaloni

 

La creatività è la capacità di reinventare con libera fantasia la realtà; la fantasia stessa è, invece, l’attitudine a creare nuovi mondi, che divergono dalla materialità. Creatività e fantasia, quasi la stessa cosa nel linguaggio comune, ma assai diverse nell’opera d’arte: è intuibile come il rimodulare in maniera insolita e brillante un aspetto del mondo sensibile sia molto più complesso dell’inventare a briglia sciolta. Essere fantasiosi è svagante, essere creativi è impegnativo e Felice Meo ama l’impegno e il ricreare il già visto col suo tocco sensibile e mai scontato. “Nel segno della Croce”, la mostra tenuta dall’artista di Casamicciola Terme al Castello Aragonese nella settimana di Pasqua, racconta in maniera sobria e appassionata il credo dello scultore, attraverso le croci che plasma da materiali di scarto in ferro. La particolarità dell’esposizione è già nella scelta della sostanza madre delle sculture, ossia il ferro, utilizzato per costruzioni assai lontane dalla sacralità intrinseca nel simbolo della croce. Meo rifiuta ogni laccatura, ogni orpello che rende rarefatto il santo emblema, poiché vuole ritornare alla semplicità, all’origine delle origini, esulando dall’ampollosità cattolica e dalle sue dorature. I riflessi colorati che velano alcune sue croci nascono da acidi reagenti in natura e, nello stesso iter scultoreo, l’artista usa gli strumenti essenziali degli artigiani, senza perdersi in macchinosi apparecchi. Ogni spettatore è attirato da un’opera diversa, cosa rara vista la presenza di un’unica musa (la croce) e di un solo cantore (il ferro): ci si ferma davanti alla croce dalle estremità curve, nata dalla struttura di una botte, nella quale Meo ha rappresentato il Dio che abbraccia, o dinanzi al palo verticale scandito da scalini, ricavato dalla balestra di un’auto, dove lo scultore ha scolpito la gradinata che bisogna salire per arrivare a Dio. Se, poi, l’iconografia classica raffigura il volto di Cristo emaciato e morente, Meo ci presenta anche un Gesù vivo, dai tratti che ricordano il calore dell’Africa, la Sua presenza energica nella nostra vita. La speranza trasmessaci dal grande crocifisso, che non inchioda la vita, ma la esalta, è forse la stessa che provò l’amico di Felice Meo, quando – ammalato – ebbe in dono la prima croce dell’artista, creata appositamente per sostenerlo in quei giorni d’ospedale. Da quella scintilla di affetto nacque inaspettatamente tutta l’opera dello scultore, che decise di fare qualcosa anche per gli altri, contento del conforto che era riuscito a dare al suo caro. Formatosi presso la Scuola d’Arte “Policarpo Petrocchi” a Pistoia, Felice Meo ha messo al servizio dell’ONLUS “I Fiori di Giada”, associazione isolana che aiuta le famiglie dei bambini malati in difficoltà, la sua arte nello scolpire. Ed è incredibile pensare come, su una settantina di croci prodotte all’anno (di cui solo trenta protagoniste della mostra), l’artista non si ripeta, dando a ogni opera un’impronta singolare e sempre emozionata, nonostante il repertorio monotematico. La suggestione provata da Felice nel realizzare le croci non deve meravigliare, perché deriva dalla religiosità dell’artista, dal conoscere la nobile finalità delle sue opere e dall’amore con cui lavora, amore che sa quasi di fatalità. Spesso, infatti, Felice si ferma durante la lavorazione di una scultura – non sapendo come affinarla o terminarla – ed esce dal laboratorio, in cerca del materiale perfetto per una conclusione e, straordinariamente, lo trova, guidato dagli stessi sentimenti che gli ispirano il suo unico soggetto. Questo insieme di sentimenti s’incarna in ciascuna delle croci che, se acquistate, diventano un dono di carità. “Ognuno ha la sua croce”, questo il motto di Meo: ma possiamo alleggerire fardelli più pesanti dei nostri con piccoli gesti spontanei, come fece l’artista col suo amico, e dare inizio a questa rivoluzione del cuore.

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