Thursday, April 18, 2024

Business- UN IMPERO DA UN TUBERO

n.07/2006

Photo: Riccardo Sepe Visconti
ArtDirector: Riccardo Sepe Visconti
Text: Anna Schiano
Dress Man: Boutique Scaglione Uomo
Jewellery: Gioielleria Bottiglieri
MakeUp: Nancy Tortora
Hair: Cristian Sirabella
Assistant: Daniela Laganà

 

Salvatore Di Meglio e la sua numerosa famiglia incarnano perfettamente lo spirito imprenditoriale che unisce i tanti ischitani che hanno saputo cogliere, senza esitazioni, le grandi opportunità derivate dal boom turistico del dopoguerra.

Parliamo della tua famiglia…
Eravamo 11 figli, ma nel 1945 ne morì uno. In quello stesso anno, mio padre acquistò un peschereccio; possedeva, inoltre, insieme ai suoi fratelli molti dei terreni dove poi è stato costruito il Jolly Hotel, a Ischia.

Come mai tuo padre era proprietario di questi terreni?
Li aveva ereditati dai miei nonni che li avevano ricevuti a loro volta dai rispettivi genitori.

Quegli appezzamenti di terreno rappresentavano già una ricchezza all’epoca?
Sì. Qui ad Ischia si viveva soprattutto di agricoltura e in misura minore di pesca. La terra era fertile, c’erano vigneti, aranceti, limoneti. So che venivano da Napoli per comprare le patate, ad esempio. L’isola era favorita soprattutto dal clima e rispetto alla terra ferma riusciva ad anticipare di 20-30 giorni la nascita di alcune primizie (in modo particolare nella zona dei Maronti). Allora non esistevano ancora i concimi chimici e bisognava procurarsi il contenuto dei pozzi neri che, mescolato alle alghe marine, costituiva un buon fertilizzante. Ricordo che da ragazzino mio padre mi disse una cosa che non ho più dimenticato: “Figlio mio, adesso che hai finito la quinta elementare e sei diventato professore devi venire a zappare perché io ho bisogno di una mano per mandare avanti la famiglia”. Avevo appena cominciato a frequentare l’Istituto Nautico a Procida e dovetti rinunciare.

Eri il più grande dei tuoi fratelli?
No, il maggiore sta in California: nel 1950 sposò una ragazza di Ischia che viveva lì e quindi si trasferì in America. Allora avevo 13-14 anni ed ero l’unico che potesse aiutare concretamente in casa perché gli altri fratelli maschi erano tutti più piccoli.

La vostra era una famiglia semplice ma abbastanza benestante rispetto al livello medio ischitano…
Sì, è così. Coltivare i campi ci permetteva di stare bene rispetto alla miseria che si poteva vedere dopo la guerra, tuttavia era necessaria la collaborazione di tutti noi figli.

Il soprannome “Patanari” come nasce?
La famiglia di mio padre era conosciuta come “Benigno”, ma quando nel 1945 acquistammo il motopeschereccio, gli altri pescatori per distinguere la nostra barca dalle altre, (i cui proprietari pure avevano soprannomi come “Cialiciapp'”o ” ‘U Furchj”) diedero a mio padre il soprannome di “Patanar'”perché veniva dalla campagna e coltivava patate.

Tu sei molto orgoglioso di questo nome…
Senza dubbio.

È una specie di stemma di famiglia che ricorda la fatica che avete fatto per arrivare dove siete oggi…
Molta gente mi chiede il motivo per il quale continuo a farmi chiamare in questo modo ed io li invito ad usarlo sempre perché ne vado fiero.

Riuscivate a dividervi tra la pesca e l’agricoltura?
Si, io giocavo pure a calcio. La mattina si andava per un paio d’ore nei campi, poi nel pomeriggio, dopo aver riposato un po’, si usciva a pescare. Ho cominciato a lavorare con il peschereccio quando avevo 13 anni e ci spostavamo fino a Napoli e a Procida. In seguito siamo entrati in società con dei procidani perché noi, in realtà, non eravamo molto portati per la pesca e abbiamo continuato ancora per 3-4 anni.

E la passione per il calcio?
Sono sempre stato un patito. Ce l’avevo nel sangue. Mio padre non voleva che andassi a giocare perché dovevo aiutarlo. Secondo lui gli allenamenti e le partite erano una perdita di tempo. Così un giorno gli dissi: “Papà, se non mi permetti di andare a giocare, allora mi comporterò come i miei amici che se ne vanno al bar a fumare. A me piace solo giocare a calcio. Fammi partecipare agli allenamenti e poi quando avrò finito verrò ad aiutarti ancora nei campi”. Mi guardò e mi diede il suo consenso. Alcune volte, di domenica, dopo esser ritornato da una partita dovevo subito ripartire per andare a praticare la pesca notturna. Nel 1955 fui richiamato per il servizio militare, a La Spezia, ma riuscii poi ad ottenere l’avvicinamento a Napoli per continuare a giocare nell’Ischia Calcio.

Quando pensi che sia avvenuta la svolta per la tua famiglia?
Ad un certo punto mi resi conto che i tempi stringevano e dovevo decidere cosa fare della mia vita: la pesca e l’agricoltura cominciavano a non andare più così bene. Iniziava a farsi strada l’idea che si dovesse costruire il “Jolly Hotel”. Quando venne ad Ischia il sindaco Vincenzo Telese, mio padre non voleva vendergli il terreno per la realizzazione dell’impianto turistico perché gli era stato offerto poco (2000 lire al metro) e perché voleva continuare ad impiegarlo per le colture in modo da assicurare un futuro ai figli. Allora io ero ancora un bambino, ma ricordo che al fermo rifiuto di mio padre, Telese, uomo intelligente e lungimirante, disse: ” Isidò, sei rimasto all’Ottocento, tu e ‘a zapp’, ‘a parul’, ‘e carot’, ‘e cetriol’, ‘e ppatan’! Questa mentalità la devi cambiare: i tuoi figli dovranno lavorare nel turismo. Vogliamo costruire il “Jolly” perché Ischia deve svilupparsi diversamente. E aggiungo pure che se tu non mi cedi il terreno a questo prezzo, io te lo faccio espropriare e tu non vedrai neppure una lira!”. A queste parole mio padre rispose: “Tu parli di turismo, ma chi mi assicura che darai da lavorare ai miei figli?”. E il sindaco disse: “Isidò, ti do la mia parola d’onore che i tuoi figli lavoreranno!” (il sig. Di Meglio si commuove, n.d.r.). Alle parole di questo signore che voleva andare avanti a tutti i costi, io trassi un sospiro di sollievo e pensai che forse c’era un futuro anche per me.

Quel terreno era chiamato “Le Paludi”?
Era denominato “‘e Pezz'”, perché composto da tanti fazzoletti di terra, quanti erano i suoi proprietari. Mio padre li rilevò tutti e li vendette ai proprietari della futura struttura alberghiera.
Quando nel 1957 ho finito il servizio militare (mio padre moriva nel settembre di quell’anno), confidai a Filippo Ferrandino l’intenzione di lasciare Ischia perché non riuscivo a vedere delle prospettive per il mio futuro. Volevo raggiungere in America mio fratello, che stava mettendo su una piccola fortuna. Ma mi sentii rispondere: ” Addò vai? Nun capisc’ nient’! Ischia si sta aprendo a nuove prospettive. Cominciano a sorgere gli alberghi. Mettiti a vendere frutta e verdura, tu si nu figl’ e ‘ndrocch’ e ci riesci!”. In quel periodo si affittava un negozio a Ischia e Filippo mi fece da garante. Avevo 22 anni e mia madre mi disse: “Figlio mio, tu vuoi fare il commerciante? Io ti sosterrò fino alla morte, ma ricordati che posseggo soltanto 350.000 lire e finiti questi soldi non avrò più niente da darti”. Si trattava del denaro avanzato dalla vendita del terreno, il resto era stato speso per provvedere alle cure per mio padre malato. Con quel budget avviai il negozio di frutta e verdura.

Cosa ha fatto la fortuna di quest’attività?
La cooperazione di tutti i fratelli: Stefano allora era meccanico e mantenne quell’impiego ancora per due anni, poi entrò nella società; Tonino cominciò a collaborare fin dall’inizio, aveva 12 anni; Giuseppe, che ne aveva otto anni, studiò da ragioniere e successivamente divenne contabile dell’azienda. Prendevamo anche appalti con gli alberghi e dal momento che giocavo discretamente a calcio e questo mi procurava popolarità, le porte erano sempre aperte ogniqualvolta mi presentavo ad un potenziale cliente.

La ricchezza che sei riuscito a mettere da parte è dovuta soprattutto a questo tipo di lavori?
Al negozio di frutta e verdura, abbiamo cominciato con la vendita al dettaglio per passare poi a quella all’ingrosso.

La vostra famiglia è sempre stata unita?
Sempre.

Non c’è mai stata qualche frattura?
Le fratture sono inevitabili, come in tutte le famiglie, però ci siamo sempre seduti a tavolino per risolvere i problemi. Quando abbiamo dato vita alla società, abbiamo diviso anche le quote, per cui ogni volta che ci riuniamo e discutiamo, facciamo in modo che a decidere sia sempre la maggioranza.

Com’è nato il primo albergo?
In seguito ad uno screzio che ebbi con un albergatore. Verso il 1972-’73, alla fine dell’estate, fui chiamato da un direttore che possedeva una struttura a cinque stelle, il quale mi accusò di avergli venduto della merce scadente. Mi disse che voleva uno sconto del 10% sui pagamenti, ma mi rifiutai perché avevo già accettato delle cambiali e quindi posticipato i versamenti. Fui cacciato dal suo studio. Questa vicenda mi fece riflettere, pensai che non era giusto essere trattati in quel modo. Poco tempo dopo venni a sapere dal fratello del proprietario dell’hotel “President”, che il complesso era stato messo in vendita perché navigava in cattive acque. Gli chiesi: “Giovanni, fammi capire una cosa: si fanno affari?” Rispose che l’attività avrebbe fruttato. Dopo due giorni rilevai la struttura per 280 milioni.

Dopo il “President” che cos’è successo?
Abbiamo acquistato il “S. Raphael”, poi il “Felix”, il “Cristallo”, l’ “Aragona Palace” e ultimamente il “S.Pietro”.

Compri tanti alberghi perché pensi che rendano o perché hai capito che oggi a Ischia per fare l’albergatore avere una sola struttura non conviene più ed è invece necessario possedere una catena?
È l’unione che fa la forza, per gli uomini come per gli alberghi. Le pensioni tenderanno a scomparire perché non posseggono strutture come la piscina al coperto, il centro benessere, ingredienti necessari per andare avanti.

Questo vuol dire che la vostra politica è incentrata sui numeri?
Sì, perché maggiore è il numero di clienti, inferiore è il prezzo che si può offrire.

Tu riesci a fare i prezzi più bassi dell’isola?
Non so, non mi sembra. Credo di essere nella media o leggermente al di sopra. Bisogna proporre un servizio di una certa qualità al prezzo giusto per incentivare il ritorno dei turisti.

Da dove proviene la tua clientela?
Viene soprattutto dal Nord Italia, si lavora pochissimo con l’estero.

Le tue strutture alberghiere hanno risentito del fatto che i tedeschi non vengono più a Ischia come un tempo ?
Se avessimo contato soltanto su quel tipo di presenze avremmo già fallito. La gente ormai ha cambiato il modo di vivere le vacanze: non sceglie più il soggiorno di 2 settimane per le cure termali. Ora si viene per 3-4 giorni, si fa un po’ di piscina, di sauna, qualche massaggio, probabilmente anche perché nelle tasche degli italiani c’è ben poco.

Quando sarà pronto il “S. Pietro”?
Abbiamo grandi progetti per quella struttura, ma se non verrà attivato il depuratore, non potremo realizzarli. Ci vorranno tre anni prima di bonificare quell’area e quando questo avverrà saremo pronti ad aprire.

Riesci a far sentire la tua voce agli amministratori?
Urlando, ma poche volte prestano ascolto; attualmente, tuttavia, si stanno adoperando per realizzare progetti utili per tutta la comunità, come il depuratore, la linea del gas, il riassetto di alcune strade.

Quante persone lavorano complessivamente per la famiglia Di Meglio?
Circa 200 persone, considerando tutti i nostri alberghi.

Perché e quando decidesti di chiudere il negozio di frutta e verdura?
È un’attività che bisogna gestire in famiglia e dal momento che i nostri figli erano già ben inseriti negli alberghi, noi genitori non potevamo continuare, sarebbe stato un sacrificio troppo grande. L’abbiamo lasciato nell’ ’84-’85. Mi ci ero molto affezionato.

Il futuro dell’albergo a Ischia significa seguire sempre le nuove tendenze?
La nostra isola è la più bella del mondo, soprattutto per la sua vegetazione. Dobbiamo rivalutare alcune aree. Molti dicono che Ischia ha esaurito le sue risorse, io credo che ha dato solo il 70%, resta un buon 30% da sfruttare ancora.

Credi che bisogna valorizzare il patrimonio naturale?
È necessario risolvere il problema del traffico. Dal momento che Pozzuoli è congestionata e i clienti che devono imbarcarsi per Ischia restano bloccati, ho avanzato la proposta di costruire un porto a Torregaveta, che dista dalla nostra isola solo 20 minuti di traghetto e 10 minuti di aliscafo. La località possiede tutti i requisiti necessari per realizzare una struttura portuale. La possibilità di concretizzare quest’idea è affidata a noi, l’amministrazione di Bacoli e l’avvocato Coppola si sono mostrati entusiasti del progetto.

E per quale motivo non si procede?
C’è qualcuno che ha boicottato il progetto, ma il discorso è ancora aperto. Coppola è diventato sindaco ed è in attesa di un nostro passo. Il problema è che non c’è abbastanza forza nell’amministrazione, né nelle associazioni degli albergatori.

Hai mai pensato di entrare in politica?
Me l’hanno proposto. Non mi è mai piaciuta l’idea, perché fare politica vuol dire rinunciare agli interessi privati, bisogna dedicarle tempo e io non me lo posso permettere.

Come ti senti oggi dopo tutto quello che hai fatto? Ancora come un ragazzino o come un uomo arrivato?
Sono ancora il primo ad alzarmi di mattina e l’ultimo ad andare a dormire la sera. Per me i problemi sono adrenalina.

Hai ancora molte idee da realizzare?
Certo. Ho quasi 71 anni e le idee nascono giorno dopo giorno.

Che importanza ha avuto il denaro nella tua vita?
Nessuna. Essere l’uomo più ricco del mondo oppure fallire per me rappresentano la stessa cosa. Credo di aver fatto il mio dovere e di aver realizzato qualcosa di buono per i miei cari. Mio padre prima di morire mi disse: “Ti raccomando questi ragazzi”. I miei fratelli allora erano piccoli e credo di aver mantenuto questo impegno.