Thursday, April 18, 2024

n.09/2006

Photo: Oscar Pantalone
Text: Riccardo Sepe Visconti

 

Lei parla di mediocrità e sembra comprendere anche se stesso, eppure non si direbbe una persona mediocre…
Ci sono momenti in cui la mediocrità è una specie di malattia. Esiste quella congenita e se ne può uscire lavorandoci parecchio, ma ognuno di noi attraversa fasi di ‘basso livello’. Bisogna imparare a vivere anche quelle, ma sostanzialmente credo che si debba venir fuori da questa massa fangosa che pare avvolga una parte consistente della nostra società. Parlo del nostro paese, negli ultimi anni vittima di un ‘complotto’ che si concretizza in un’informazione mal gestita, nella scuola carente, nei servizi sociali che apparentemente aumentano, ma in realtà sono di qualità scadente. Dovremmo batterci tra noi e noi e poi tra noi ed il resto per innalzare il livello generale, bisogna proprio fuggire dalla mediocrità come si scappa da una nebulosa che rende tutto triste e basso.
La musica ha un valore educativo e in special modo negli anni passati è stata musica di denuncia. Oggi lo è un po’ meno?
La musica ha la capacità di educare l’anima e di sviluppare il cervello, sia sul piano razionale che emotivo: cervello e anima sono due cose che spesso agiscono separatamente mentre sarebbe preferibile che lo facessero insieme. Se cresce il livello culturale, sociale ed emozionale delle persone, sicuramente il mondo migliora e di conseguenza si lavora meglio, e l’artigiano produrrà una sedia in cui si sta più comodi. È tutto collegato. Nel nostro caso la musica, ma anche il cinema, la letteratura, la chirurgia, l’ingegneria vanno affrontate cercando di dare tutto il possibile, per noi e per le persone che ci stanno intorno.
L’anima è un concetto che lei riprende spesso nelle sue canzoni, è un tema ricorrente…
La vita è un regalo del Cielo, di Dio. Non possiamo pensare che ci sia stata data perché poi la gestissimo in maniera autonoma, usandola soltanto per noi stessi. L’anima è un progetto collettivo al quale assistiamo continuamente, è una spugna che riceve e dà, è un fenomeno celeste ma sta a noi di alimentarla e lubrificarla incessantemente, in modo tale che senta di ricevere e di dare, abbiamo il compito di arricchirla e in questo senso ci riguarda tutti.
É sempre stato così religioso?
Sono religioso perché credo, ma non mi ritengo un integralista e sono pronto a discutere tutto, tranne il fatto di credere. I modi di credere sono diversi, avere un rapporto corretto con gli altri vuol dire già essere religiosi e non è detto che uno debba per forza essere cattolico. La valutazione che diamo della nostra religiosità è da ricercare in primo luogo nella gestione dei rapporti con gli altri, nel rispetto che si ha di ognuno.
Da dove attinge la sua cultura?
Ho vissuto molto, mi sono occupato di molte cose e sono molto curioso. I processi di crescita non si arrestano mai: un uomo cresce anche a ottant’anni e se il fisico si indebolisce la possibilità di crescita del cervello può restare intatta. La cultura te la fai fino ad un giorno prima di morire, intendendo per essa la conoscenza della vita.
Essere un artista è un privilegio o un peso in più, perché bisogna mettersi costantemente in gioco?
È un privilegio, senza dubbio. Mettersi in gioco fa parte della vita, anzi è l’antidoto contro la mediocrità. Uno comincia ad essere limitato quando sente di dover difendere quello che ha: questo è il motivo per il quale ho sempre provato avversione per il potere e per quello che rappresenta nell’immaginario di tutti. Non mi piace il potere, fin da piccolo istintivamente, e poi da grande razionalmente, ho preso le distanze. Chi comanda, vive delle condizioni di ‘superiorità’ sia perché le rincorre volutamente, sia perché si trova a doverle sperimentare. Considero chi comanda come qualcuno che ha dei compiti in più e cioè pensare anche agli altri: ma va detto che questa visione raramente trova spazio in una società come la nostra, perché in genere chi ha un potere tende a preoccuparsi innanzitutto della conservazione dei propri privilegi. Milioni di persone sono cresciute con le sue canzoni e in questo senso le devono molto.
Lei pensa di dovere qualcosa agli altri?
Se non ci fosse stato chi ascoltava la mia musica, io non ci sarei mai stato oppure sarei stato molto diverso. La mia responsabilità e la percezione del peso che ho, mi obbligano a cercare di migliorare costantemente ciò che faccio.
C’è stato un momento in cui ha pensato che stava commettendo degli errori?
Accade ogni volta che devo muovermi, mi chiedo se sto sbagliando qualcosa e questa è una delle ragioni per cui voglio sentirmi libero…anche di sbagliare. Credo che la vita, i sentimenti, il lavoro siano tutti dei ‘work in progress’ e cioè solo praticandoli, ti dirigi verso il giusto.
La vita di un artista famoso come lei è sempre carica di tensioni, o sbaglio?
Mai. Se c’è una cosa di cui non sono vittima è proprio la tensione. Non mi sono mai sentito teso, neppure quando all’inizio le cose non andavano bene. Viceversa, mi sono sempre divertito, non guardando mai il risultato finale come un punto di arrivo. Mi ha intrigato sempre di più il percorso che tagliare il traguardo. Nel lavoro come nella vita in generale non vivo di tensione: ad esempio, cantare davanti a centomila persone per me è come cantare davanti a dieci. È curioso il meccanismo che mi porta a cantare.
Ci racconti qual è questo meccanismo…
Cercare di sapere cosa pensa il personaggio di cui sto scrivendo la storia in una canzone: quando ho creato “Caruso” mi sforzavo di immaginare com’era lui. Chi fa il mio mestiere deve avere la capacità di andare oltre il proprio punto di vista per comprendere anche quello altrui, centrare il modo di pensare degli altri. E questo è un bel gioco.
Sostanzialmente il suo è un lavoro oppure un divertimento?
Mi diverto quando lavoro.
Riesce a percepirlo fino in fondo come un lavoro?
Sì, ma senza gli affanni e le responsabilità. Non ho voluto, né sono mai riuscito, a scindere il lavoro dal piacere della vita.
Potrebbe realizzare qualcosa di artistico se non le piace?
No. Ci sono stati dei momenti in cui ero al limite, cioè mi sono occupato di una cosa che m’interessava meno, però l’ho fatto ugualmente, perché i risultati economici mi avrebbero consentito di dedicarmi a ciò che mi piaceva di più. Adesso ho raggiunto una maturità operativa a 360 gradi: il 23 giugno a Cannes terrò un concerto jazz insieme a Woody Allen. Ho capito che guardandosi intorno e dedicandosi a differenti progetti si cresce, chi si specializza in un settore perde l’80% degli stimoli che possono venire da tutto il resto.
Lei ha suonato e cantato con i più grandi e sembrerebbe che abbia realizzato, dal punto di vista musicale, tutti i desideri più ambiziosi…
Il vero traguardo è che non ho mai desiderato niente quando ho cominciato, nel senso che tutto ciò che ho fatto l’ho incontrato e non cercato e questo mi fa sentire privilegiato e fortunato. Non ho mai avuto il mito di nessuno perché non avrei nemmeno quello di me stesso. Sono religioso perché credo nel credere e la convinzione religiosa ha in sé anche la laicità: credo nella vita, negli esseri umani, negli incontri e soprattutto nella casualità, per cui i disegni del Cielo sono molto più complessi e reali dei nostri. Non si può confrontare l’uomo con il Cielo, perciò aspetto che venga verso di me tutto quanto deve accadermi.
In che misura è cambiato il suo modo di fare musica con la maturità artistica?
Molto. Da ragazzo amavo il jazz, poi i miei interessi si sono ampliati: ho lavorato con Pavarotti; tre anni fa ho tenuto un concerto insieme a Ray Charles; due anni fa poi ho fatto un concerto jazz al Teatro dell’Opera di Vienna; l’altra sera ho suonato in una discoteca con Marco Alemanno che leggeva “L’infinito” di Leopardi davanti ai piastrellisti di Sassuolo. Per me questa è la normalità. Come artista mi sento investito di una certa responsabilità rispetto al prodotto che devo presentare, non tradirei mai l’idea che ho delle persone offrendo loro qualcosa che non rappresenti la parte migliore di me.
C’è una canzone che l’ha un po’ stancata?
Così su due piedi non saprei rispondere, naturalmente ci sono pezzi che suono da quarant’anni, ma non potrei mai cancellarli perché so che chi viene ad ascoltarmi li aspetta. Sicuramente, però, li interpreto in maniera ogni volta diversa. E d’altra parte il valore di una canzone si ritrova proprio nel rapporto che c’è tra la gente e la canzone stessa.
Nel suo percorso ha anche aiutato colleghi che si trovavano in situazioni poco fortunate…
Sì, ma non perché ero spinto da motivi umanitari. Quando ho realizzato “Dalla – Morandi”, sono riuscito a convincere Gianni non perché in quel momento stesse vivendo un blocco, ma perché è un mio amico e ci conosciamo fin da bambini. Quando abbiamo fatto il tour, ero convinto che due personalità diversissime come le nostre potessero incuriosire il pubblico.
Prima ancora c’era stato quello con Francesco De Gregori…
In quel momento lui era all’apice. Eravamo amici e demmo inizio ad una serie di concerti negli stadi che continuano tutt’oggi.
Queste contaminazioni, considerando anche quella con Luciano Pavarotti, costituiscono degli stimoli interessanti…
Lavorare con un grandissimo tenore mi ha dato veramente tanto, ho preso coscienza di possibilità che non avevo neppure considerato come l’opera, il melodramma, che successivamente mi hanno portato alla rivisitazione della “Tosca”.
C’è qualcosa che decisamente desidera fare?
Se dovessi fare un elenco di ciò che desidero realizzare, in testa ci sarebbe sicuramente la regia di un film, scriverne il soggetto e poi curarne la direzione.
Ischia ispira la sua musica?
Soprattutto S. Angelo, dove torno ormai da circa vent’anni. Sono molto legato a Sorrento e a Capri, ma devo dire che questo borgo ha un fascino particolare, sento delle vibrazioni che mi fanno pensare che qui nei millenni è accaduto veramente qualcosa d’importante, ci sto bene e sento un’energia che mi mette in moto i pensieri.