Thursday, March 28, 2024

27/2010

Text: Peppino Brandi

 

(Memorie, senza tempo, alla moda dell’Ultramontano, di un viaggiatore romantico) … Sotto la spalliera di roccia friabile, che accompagna, infiorettata da stocchi di agavi morte e da tormentati grovigli di fichidindia, la spiaggia, la sabbia vaporava e fumava, preannunciando le acque bollenti di Cavascura. Proseguii, venendo da Sant’Angelo, tra spiaggia e mare – scansando di tempo in tempo figure umane che, isolate o a gruppi, distese immobili sotto cumuli di sabbia, con gli occhi rivolti al cielo come sarcofaghi arcaici, cedevano ad essa le tossine accumulate – fino a che, a mezzo quasi dei Maronti, un’alta, angusta e profonda fenditura mi apparve che spaccava la balconata tufacea fronteggiante l’orizzonte e serpeggiando s’apriva a forza il varco verso il cuore del monte. Ne discendeva un rivolo di acque grigie e tiepide che incidevano nella sabbia il loro letto, lambendo il mare. Quella fenditura saettante, come tracciata dalla folgore, era la soglia di Cavascura. All’ingresso una grotta profonda e fresca ed una rudimentale tettoia di stuoie con rozzi tavoli e sgabelli, saluta i viandanti diretti alle acque miracolose che scendono dal cuore segreto della montagna, è la taverna di Pietro Paolo. Vi si beve vino rosso, quello che dissipa la tristezza in un canto d’amore, prima di iniziare l’esplorazione delle sorgenti che sono in alto, all’origine di questo serpeggiante vallone, quasi il letto di un torrente montano incassato tra alte rive e volubili tornanti di roccia grigia e friabile. Quando si è dentro, ci si sente al fondo di un canyon, svettano alti nel cielo pinnacoli di roccia, cesellati dalla perenne erosione, mentre l’acqua tra i piedi nudi continua a fluire discendendo il misterioso canalone verso il mare. Di tanto in tanto, in cima a scale e terrazze, scavate nei suoi fianchi, appariva qualche civettuola casetta, ma anche rozzi abituri presso grotte naturali o spechi di antichi bagni e cave di pietra; ne uscivano voci isolate di misteriosi abitatori, che risuonavano nella solitaria gola come echi armoniosi di un mondo ultraterreno. Infine, un vocìo più fitto ed il consolante scroscio delle acque ci annunciano la vicinanza della meta agognata. Dietro bianchi lenzuoli appesi, si aprono le cavità delle celle antichissime, scavate nella viva pietra in foggia di loculi sepolcrali; entro ciascuna di queste che assomigliano alle etrusche tombe a camera di Tarquinia, una vasca rettangolare è scavata nel pavimento di sasso con un origliere anch’esso di pietra consunta; primordiali canali scoperti corrono lungo le soglie delle celle, gli uni recanti alle vasche il flusso delle acque radioattive che spicciano bollenti dal tufo, gli altri scaricando l’acqua già utilizzata. Due grandi cisterne raccolgono, l’una l’acqua bollente, l’altra quella che le donne di Cavascura tengono a raffreddare per graduarne il calore. E’ il più antico stabilimento termale al mondo e nulla è mutato da quando se ne avvalsero i Romani. I gesti delle bagnine hanno un che di antico e di rituale, quando con i grandi secchi a mano empiono le vasche e ne stemperano il calore, o stendono i grandi lenzuoli che fungono da tendaggi alle celle. Può anche capitare, sbirciando con occhio distratto dietro quelle lenzuola, di intravedere delle signore che, mollemente adagiate, abbiano, con quelle acque rigeneratrici, un rapporto intimo e creativo… Ma quando la stagione inoltra incontro all’inverno, le donne di Cavascura tolgono tende, asciugamani e secchi e discendono con le loro poche robe verso la spiaggia dei Maronti; risalgono ai paesi alti sul monte. Cavascura rimane allora deserta con i suoi canali e le sue antiche celle spalancate sul silenzio inviolato della gola montana; ogni viandante che ripercorra il tortuoso e selvaggio vallone può bagnarvisi ed abbeverarsi al suo tepore salmastro. Tutto è vago ed incerto attorno a queste acque, a questo luogo remoto in un limbo magico dove si respira un’aria taumaturgica. La scienza medica e quella chimico-fisica si sono arrestate alle soglie della gola, perché non fosse violato questo clima di stregoneria e di leggenda che affascina uomini alla ricerca del perduto turgore giovanile e donne ansiose di infantare. Quel giorno incantato volgeva al termine, quella selva di guglie, affilate, immobili e ieratiche, ci guardavano con occhio distaccato mentre gli umili canneti sembrava che s’inchinassero, stormendo al nostro passaggio. Sopra le agavi stupefatte e le braccia demoniache dei fichidindia in tormento, si libravano con lente ruote i gheppi, come su di un girone infernale, come attorno all’orifizio di una grotta oracolare dove si traessero auspici dagli orecchi di Dioniso, tra i fumi delle acque in bollore. Le rivedo ancor quelle vasche popolate di corpi ignudi, parevano letti e triclinii sormontati da statue vive e ammiccanti; e le vigorose ed onuste sacerdotesse di quel rito propiziatorio continuavano a versare torrenti di acque radioattive, mentre i grandi lenzuoli pendevano dinanzi alle celle come bianchi sudari.