Friday, April 19, 2024

Interview_ Riccardo Sepe Visconti Photo_ ICity_ Google

Guardando al complesso di ciò che sta facendo al MANN, ho coniato per lei la definizione di “Direttore scugnizzo”: si muove per eliminare i muri, per portare la città al Museo ma anche il Museo nella città, concentrando la sua attenzione su zone di grande complessità come i quartieri di Forcella e della Sanità, che sono fisicamente vicini a voi ma molto difficili dal punto di vista del rapporto con un’istituzione come questa.

Accetto di buon grado la sua definizione, che ha colto uno degli aspetti della nostra strategia. Credo fermamente nel fatto che il Museo debba essere inserito in un contesto non solo territoriale ma anche urbano, non prescindendo da esso. Il museo per sua vocazione tende ad educare, ad elevare la cultura e lo spirito di chi lo visita, ma di solito svolge questo servizio per chi decide di sua iniziativa di entrarci – e comunque finora si rivolgeva a cerchie di visitatori che la cultura ce l’hanno già nella loro formazione personale. Noi abbiamo voluto affiancare alla dimensione culturale del Museo quella sociale, il Museo ha una responsabilità che non è solo conservare le opere, che gli appartiene istituzionalmente, ma anche intercettare quei cittadini che possono non essere interessati al tema dell’antico in sé, ma possono essere interessati all’antico come spunto di riflessione rispetto al presente. Esiste sicuramente una parte della popolazione che vede un muro separarla da questo luogo e se il museo vuole essere un attore principale della crescita della Città deve uscire, appunto, dalle sue mura e andare nei luoghi disagiati. Se mi limitassi a tenere una conferenza all’Università non aggiungerei nulla a un rapporto già consolidato fra il mondo dello studio e della ricerca e il museo, invece, noi vogliamo dare un’occasione di crescita a quelli che saranno i cittadini del domani.

Quali fra le iniziative prese in questa direzione sono riuscite meglio?

I progetti con le carceri, per esempio. Che danno un momento di serenità alle famiglie, spesso composte da un padre che appunto è in prigione, una madre spesso giovanissima e bambini piccoli, che qui si ritrovano insieme senza barriere, quando il museo è chiuso.

E lei si sente a suo agio in queste situazioni?

Sì, mia madre è un’insegnante elementare ed è sempre stata impegnata nell’accoglienza dei bambini più difficili, per esempio i figli degli emigrati in Toscana, regione da cui vengo – negli anni ‘70 provenienti dal sud Italia, ora dall’estero. Chi opera nelle scuole, come negli ospedali, vive sempre la prima emergenza rispetto a tali fenomeni, questo per dirle che per ragioni familiari ho consuetudine con questo tipo di problemi. E poi ci credo, è nostro compito primario andare a Forcella come alla Sanità dove abbiamo tante collaborazioni con padre Antonio Loffredo, e dare un segnale ai ragazzi che ci vivono. Vogliamo far capire che i musei servono anche a questo, sono un luogo ‘politico’, non solo perché formano i giovani che qui possono capire gli errori del passato, sappiamo, infatti, che tutto ciò che adesso sta accadendo è già successo mille volte, e qui dentro noi lo documentiamo, ma sono anche dei luoghi che possono influire sulle persone. Non è un caso, per esempio, che il regime fascista abbia trovato nella romanità alcuni elementi che, estrapolati ad arte, sono stati asserviti alla ideologia che voleva affermare. Il Museo, per tutte queste ragioni, ha un grande potere, quello di dare alla gente la possibilità di fare scelte più consapevoli. E le dirò di più: secondo me quella affermazione secondo cui la bellezza salva il mondo è una sciocchezza, piuttosto lo fa la dignità, il fatto di vedersi riconosciuti i diritti basilari; può accedere alla bellezza chi è nelle condizioni economiche e sociali per farlo, sennò si vanno a vendere sigarette di contrabbando. Ridurre il Museo a semplice luogo dove si contempla la bellezza, significa non capire la storia, in questo caso quella antica.

Dirigere un museo che racconta la storia le dà una grande responsabilità, in particolare in una realtà come Napoli affetta da un fortissimo strabismo, da una parte una delle realtà più colte al mondo, dall’altra una Città di grande drammaticità.

I musei archeologici riflettono una realtà, quella dell’antico, che non è l’età dell’oro, sotto il profilo medico, della durata della vita, sotto il profilo della mancanza dei diritti fondamentali: quel mondo ha espresso vertici assoluti nell’arte, nelle infrastrutture, nella letteratura, ma era un mondo ambiguo e ingiusto quanto il nostro e proprio per questo il confronto è proficuo, ci dà tante risposte, ci consente di indurre a riflettere. Per esempio, le dinamiche di contrapposizione fra gruppi di potere che hanno portato alla conquista della Persia dominata da Dario III, che peraltro trattava malissimo i suoi sudditi, da parte di Alessandro Magno non mi sento di definirle come positive. L’uomo da sempre produce momenti di luce e momenti di buio, di angoscia. La celebre frase dello storico romano Tacito “Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace” (riadoperata poi in occasione della guerra del Vietnam, negli anni ‘60 del ‘900) dà conto di come le legioni romane si comportavano con le popolazioni che conquistavano. Ecco, vorrei che la gente leggendo le opere esposte al MANN e la storia che c’è dietro, conosca i tanti punti di vista che fanno la storia per poi formarsi una propria opinione. Perché la verità unica non esiste, le verità sono tante.

Le forti distanze temporali che si devono colmare nell’approccio ad un museo archeologico non costituiscono secondo lei un problema?

No, anzi penso che sia il luogo più vicino alla nostra esperienza; l’importante è dare a tutti i visitatori i contenuti culturali per saper leggere. E’ necessario da parte del Museo far evolvere il proprio sistema di comunicazione: certo il nostro è un museo storico, ma gradualmente si devono aggiungere elementi comunicativi che arricchiscano il dialogo per mediare certi contenuti. Le faccio un esempio: con la mostra su Guerre Stellari abbiamo portato alle estreme conseguenze un parallelismo, fra il mondo popolato di eroi creato nell’antico e quello concepito dagli autori di fantascienza. E fra il passato e il futuro c’è il nostro presente… Anche nel proporre l’archeologia in senso stretto, prediligiamo il quadro complessivo dell’opera, per esempio, prendiamo una delle sculture più famose presenti al MANN, il toro Farnese. La sua qualità stilistica è altissima, è stata realizzata in Grecia e imitata dai Romani, ma dietro quel capolavoro ci sono anche 300 morti nelle cave per estrarre il marmo, la razzia di Roma nell’isola di Rodi da cui proviene, che era porto franco, e perciò ricchissima e consentiva a tanti artisti di trovare commissioni e quindi di esprimersi e, ancora, è il segnale della forza di Roma che espone nelle terme di Caracalla quella statua portata da Rodi e ne fa un simbolo di potere. Ecco, io vorrei che la gente capisse tutto questo…! Che non ci si limitasse agli aspetti stilistici delle opere. Il museo del futuro è quello che forma cittadini pensanti, a prescindere dal loro orientamento politico. Certo non ci si deve affrancare dalla ricerca, ma vogliamo essere anche il luogo in cui si forma la coscienza civile, e fa parte di questo nostro lavoro anche rendere il museo uno spazio confortevole.

In che modo lo state facendo e con quali scopi?

Vogliamo che il Museo entri a far parte della vita dei napoletani, per questo con la campagna Openmann abbiamo dato la possibilità di acquistare un abbonamento annuale ad un costo assai accessibile che dà diritto a entrare liberamente ogni giorno dell’anno (Ndr. Ne sono stati venduti oltre 4000). Considerando che apriremo la caffetteria fra qualche mese, che stiamo risistemando i giardini e gli spazi all’aperto, vogliamo che il MANN divenga un luogo accogliente, dove si possa tornare più e più volte, non necessariamente sempre per ammirare i reperti, che sia un punto di incontro con gli amici, uno spazio che entri nel quotidiano di tanti. E, poi, col tempo, con la consuetudine si aggiungerà anche l’approfondimento dei temi proposti dal Museo.

Oggi per i musei è indispensabile riuscire anche a fare incassi, ad avere introiti propri: per quale ragione?

I musei nel mondo sono divisi in 3 grandi blocchi: quelli di fondazione bancaria, come i musei americani, creati da grandi imprese che decidono di investire in cultura e destinare ad essi una quota di utili. Questo tipo di museo non è interessato a realizzare profitti, ma solo ad intercettare visitatori, avendo le spese già coperte. I musei di seconda fascia, invece, come il British Museum e il Louvre, ricevono consistenti finanziamenti statali che sommano alle entrate e quindi non hanno esigenze così spinte di fare numeri, anche se li realizzano grazie alla loro fortissima tradizione. Poi ci siamo noi, i musei autonomi, che riceviamo un sostegno statale sempre più esiguo e, in proporzione a questo calo dei finanziamenti, se vogliamo continuare ad esistere dobbiamo accrescere gli introiti – per fare qualche esempio, paghiamo 200mila euro annui di tassa dei rifiuti e in generale abbiamo almeno 1 milione e mezzo di euro di costi fissi, mentre dallo Stato riceviamo 2-300mila euro circa a fronte di un bilancio di 4 milioni di euro.

Come riuscite a raggiungere l’obiettivo?

In primo luogo, aumentando il pubblico, che noi non consideriamo solo dal punto di vista degli ingressi e quindi della bigliettazione, e poi con un turbinio di mostre all’estero che solo il nostro museo può fare grazie all’impressionante deposito che custodisce migliaia di reperti unici.

Come funziona il meccanismo dei prestiti delle opere ad altre realtà museali?

I prestiti ai musei statali nazionali sono gratuiti, come anche ai grandi musei di prima fascia all’estero, il Louvre per esempio; con i musei di fondazione bancaria e privati italiani e stranieri sono prestiti a pagamento. Queste strutture traggono ricchezza dalle mostre realizzate grazie ai nostri reperti, con gli ingressi e il merchandising, quindi è giusto che anche noi ne ricaviamo un vantaggio. Con me direttore ciò che accadde quando il Mann prestò gratuitamente al British Museum oggetti per la mostra su Pompei in cui incassarono 6 milioni di euro non sarebbe stato possibile. Solo gestendo bene i prestiti possiamo andare avanti e gli introiti possono essere destinati anche al restauro di opere, per esempio, alle ristrutturazioni dell’edificio, ecc.

Con quali musei all’estero avete rapporti più stretti?

Abbiamo protocolli di scambio con musei come l’Hermitage e il Paul Getty Museum con cui facciamo una trentina di mostre all’anno in tutto il mondo, il che ci dà una funzione non solo culturale ma di promozione turistica, perché quelle mostre diventano avamposti in cui si presenta la città di Napoli, il nostro territorio. E dovrebbero essere un’occasione per la regione Campania per investire in promozione, per esempio la mostra su Pompei all’Hermitage è un appuntamento da non mancare per accrescere la conoscenza all’estero di quest’area e delle sue eccellenze enogastronomiche. Si tratta di avere una visione e di fare sistema, di capire che il MANN in questo momento lavora per l’immagine della Campania e di Napoli molto più degli Enti preposti a farlo.

In effetti, sono convinto che l’ex ministro della Cultura e del Turismo Dario Franceschini abbia investito moltissimo con la sua riforma sul patrimonio museale del Paese perché sapeva di non avere i fondi necessari a realizzare le infrastrutture che servono al turismo, in primo luogo, collegamenti viari e ferroviari e aeroporti e quindi ha puntato, con una felice intuizione, su una riforma che desse autonomia e possibilità di muoversi alle grandi realtà museali e monumentali. Rendendole così anche dei grandi attrattori turistici. E i risultati positivi sono stati indubbi… Nello specifico a Napoli, la presenza sua, di Sylvain Bellenger a Capodimonte, quella di Felicori alla Reggia di Caserta hanno risvegliato la città, dandole una rinnovata visibilità che ha consentito di fare ottime performances in termini di presenze.

Sono assolutamente d’accordo. Insieme a Lorenzo Casini (Ndr. Consigliere giuridico del Mibact), che è stato l’autore di questa novità eccezionale della riforma, Franceschini ha avuto il merito di dare appunto ai musei autonomi, come il MANN, gli strumenti necessari a fare una programmazione. I cardini della riforma sono stati due: in primo luogo, l’aver dotato i musei di un bilancio, per cui avendo in cassa il denaro che arriva dalla vendita dei biglietti e dei servizi possiamo programmare a lungo termine; prima della riforma, invece, solo il 31 dicembre di ogni anno le Soprintendenze (che avevano la gestione dei musei statali) potevano conoscere l’entità dei fondi loro destinati. Dico questo in difesa di chi era qui in passato e dovendo operare all’interno di questo meccanismo non aveva gli strumenti per agire. Il secondo strumento fondamentale è l’istituzione del Direttore. Che in principio ha generato molte polemiche, perché il mondo accademico ha sovrapposto il nostro ruolo a quello del direttore scientifico (per cui, per esempio, di me si è detto che in quanto etruscologo non potevo guidare un museo dedicato in prevalenza alla romanità). Ma noi non siamo questo: per come la riforma Franceschini concepisce le nostre figure, potrei dirigere anche Capodimonte o la Reggia. Perché il mio apporto non è tanto e solo di tipo specialistico, anzi non deve esserlo, questo è un compito cui assolvono professionisti curatori del settore: io devo occuparmi di relazioni, strategie, marketing. Partendo da questi presupposti, è accaduto ciò che lei ha ricordato: i musei e le aree archeologiche hanno assunto un ruolo di primo piano nel settore del turismo. Mauro Felicori, per esempio, ha portato la Reggia a triplicare il numero di visitatori, e teniamo conto che a Caserta, al di fuori del magnifico palazzo, non c’è nulla, i visitatori vanno espressamente per quest’ultimo. Considero, perciò, una scelta miope, rispetto al successo della riforma che ha dimostrato come istituti culturali e sociali come i musei possono essere anche generatori di flussi turistici, quella dell’attuale Governo di separare nuovamente il ministero della cultura da quello del turismo.

Viene riconosciuto il valore del vostro operato? Dal sindaco di Napoli, per esempio?

Sì, De Magistris è molto presente e ha compreso il senso del nostro lavoro; anche in un momento di grande difficoltà del Comune che ha una situazione di bilancio che non gli consente di fare alcun investimento, non è venuta meno l’alleanza fra Enti. Stiamo collaborando, per esempio, per aprire la Galleria Principe di Napoli, che si trova proprio di fronte al Museo e versa in uno stato di totale abbandono. Certo, abbiamo un problema di infrastrutture: il direttore Bellenger ha ragione quando si lamenta dei collegamenti, Capodimonte è molto penalizzato dalla viabilità.

Infatti, una delle prime iniziative di Sylvain Bellenger è stata di istituire la navetta da piazza del Plebiscito a Capodimonte…

Sì, ma questo è un problema che lui non può risolvere totalmente da solo, la collaborazione con il Comune in tal caso è fondamentale, perché la navetta deve procedere spedita e per farlo è indispensabile creare la corsia preferenziale, soluzione che però vede la contrarietà dei commercianti della zona. E a questo punto deve essere l’Amministrazione a scegliere che volto vuole dare alla Città: ai tavoli che facciamo con il Comune ricordo sempre che non si può accontentare tutti… Ma, detto ciò, che i musei a Napoli, in Italia costituiscano un punto di forza del turismo è una certezza, tanto più che quest’ultimo sta cambiando volto, sempre più spesso arrivano ospiti da paesi, come la Cina con cui abbiamo un rapporto costante, che non hanno avuto finora contatti diretti con la nostra cultura, e che, quindi, vanno accolti in modo attento e sapendo mediare il racconto del nostro patrimonio storico e monumentale.

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