Thursday, April 25, 2024

IL SURREALE MONDO DI SALVATORE PICA

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Bastone e cappello alla Wilde, pantaloni color crema e sigaretta tra le dita come un perfetto “beau Brummel” dei giorni nostri. E, per accendere, utilizza i fiam- miferi. Salvatore Pica si presenta come un personaggio singolarissimo, a metà tra dandismo (tutto napoletano) e reali- smo bukowskiano, condito con eleganza e finezza quasi anglosassoni. L’eclettica eccentricità dell’aspetto è, però, solo un vago riflesso della sua “molteplicità in- teriore”: lettura, scrittura, teatro sono alcuni tra i suoi interessi dopo che, es- sendosi formato da autodidatta nei vi- coli napoletani, è diventato prima mana- ger di un’azienda di design di successo, poi “imprenditore della notte” e, infine, gallerista con un unico desiderio: vivere d’Arte.

 

“Volevo diventare qualcuno, alla fine sono diventato qualcun altro”, sintetizzi in uno dei tuoi più celebri aforismi. Chi avresti vo- luto diventare e chi, invece, sei diventato? Prima di tutto, sono felice d’essere quel che sono: attraverso settant’anni di ricerca sono arrivato a capire quale fosse la mia vera natura. Nella mia vita ho percorso tutte le strade che la società di oggi apre: ho avuto un’impresa, il Centro Ellisse che a Napoli ha fatto epoca nel mondo del de- sign, e poi altre attività riguardanti il tempo libero e la notte, come il locale Pick & Paik. Generalmen- te, la mia caratteristica è quella d’esser sempre stato un egoista che prova piacere e si realizza nel dare, dare inteso come concetto. Alla fine, guar- dando il mondo con una grossa componente di autocoscienza e non attraverso i sistemi del po- tere e dell’apparire (secondo questi sarei, infatti, un completo “perdente di successo”), sono felice di essere diventato “quell’altro”, che non è siste- mabile, se non nella categoria dello spirito. Ero partito come manager, poi finì l’azienda e finì la lettura della vita in chiave di carrierismo e ricerca di grande benessere.
Ed è a questo punto che inizia la vera ricerca spirituale… Sì, sostanzialmente sono diventato un ricercatore, sono stato spinto dalla vita a esplorare continua- mente me stesso e non ho ancora finito. È una continua, naturale predisposizione a mettersi in discussione. Il che, se fatto fino in fondo, costa. La mia ricerca seria iniziò negli anni ‘80, quando si affacciò un nuovo movimento internazionale di design, il Memphis, e capii che era iniziata l’omo- logazione e che il design italiano (il quale puntava ad elevare l’estetica sociale) e la mia azienda era- no ormai superati. Non a caso nell’82 fondai l’Ac- cademia della Catastrofe Erasmo da Rotterdam, provenivo da una cultura popolare che tentava di Quindi, l’Accademia della Catastrofe può es- sere vista come una metafora: una valvola di sfogo per il dolore incanalato, ai fini di una trasformazione socio-culturale.
Esattamente. Ero addolorato per la scomparsa di mia moglie Lella, con la quale fino ai 40 anni sono cresciuto, per la morte del design come idea di ci- viltà e di progresso e la fine del ‘68 e della sua in- telligencija che, negli anni ‘70, decise di rivolgersi al potere. Ebbi una crisi di coscienza talmente dura che, dopo 10 anni, chiusi appunto la prece- dente azienda e mi tuffai, finalmente, nella notte. Perché l’Accademia è intitolata ad Erasmo da Rotterdam?
Perché egli andava verso l’elogio della follia, della diversità, della lettura della vita attraverso le sen- sazioni. Lo lessi, lo amai e intitolai l’Accademia a lui. Avrei potuto dedicarla a Nietzsche, ma il suo pensiero era troppo fondamentalista.
Cosa hai invece apprezzato di Nietzsche, che definisci un punto di riferimento? La sua critica a Wagner. La musica di Wagner è musica d’attesa, retorica del potere. Ho avuto modo di conoscerla quando, per 7-8 anni, ho fatto la comparsa al San Carlo. Una certa cultura istituzionale si attacca ancor oggi all’opera di Wa- gner, ma la musica è altro, è passione, fisicità. Di Nietzsche mi interessa l’autodeterminazione con- tro ogni retorica, la volontà di smontare il culto della personalità di Wagner, attraverso la quale smontava un’idea della vita, della società.
Hai mai avuto l’intento di smontare anche tu la società o semplicemente di porti al di fuori di essa? È diverso, io la società l’ho completamente supe- rata. L’ho vissuta pienamente negli anni milanesi e durante l’attività della mia azienda, sempre con un’impronta direi olivettiana, quella dell’altruismo sociale: misi a disposizione i miei spazi e i miei strumenti finanziari dell’epoca per permettere l’esposizione e la produzione di Arte.
La tua vita è stata, quindi, tutta dedita all’Arte. E se dell’Arte dovessi dare una de- finizione?
L’Arte è l’insieme di sensazioni che l’artista prova prima della realizzazione della sua opera. A me non interessa il prodotto finale e il suo impatto sul mercato, ma direi quasi l’artista al debutto. Ogni essere umano è portatore di Arte e di valori e si- gnificati alti. E la notte, tra le altre cose, è l’unico momento in cui si producono le sensazioni: dopo le 22 si rivela l’altra metà di sé.
Quindi la vita notturna è, secondo te, stret- tamente collegata all’Arte? Certo che sì. Nella notte, l’essere umano lasciato libero produce più sensazioni. Personalmente ho sempre amato fare l’osservatore esterno, l’ “invia- to speciale”: mi piaceva tantissimo analizzare le sensazioni che si generavano nei miei amici. Os- servare gli altri è capire se stessi. E’ difficile evitare le censure, ma lo svuotamento e la rimozione di pregiudizi è l’unico modo per cogliere l’altro ed entrare in lui.
Un sillogismo elementare con aforismi tuoi: se è vero che “Dove finisce la logica, inizia Napoli”, e che “Dove finisce la logica, inizia la donna”, allora Napoli è città femmina? Proprio così. Quando tornai da Milano negli anni del boom economico, mi accorsi che una realtà simile era inconcepibile in una città come quella partenopea. Capii, allora, che non avrei potuto utilizzare i parametri milanesi di efficienza e com- portamento, perché le cose, a Napoli, andavano al contrario. E poi, come non considerare l’immensa teatralità della città, un grande Teatro della Mor- te, della quale si ha paura e si cerca d’esorcizzarla. E Ischia?
È uno di quei luoghi che ho letto attraverso co- loro che lo abitano. Ho incontrato parecchie persone che vorrei ricordare, da Tommaso, ex ca- meriere che ha lasciato tutto per tornare a fare il pescatore, a Salvatore, massaggiatore predilet- to dell’avvocato Agnelli, a Rosalia, telefonista di Rizzoli (Ndr. Salvatore Pica ha sposato Antonella Carriero, che con i fratelli Giancarlo e Silvana è proprietaria dell’Albergo della Regina Isabella a Lacco Ameno), fino ad arrivare alle famiglie lac- chesi che mi hanno accolto, il pittore Mariolino Capuano e Lady Walton. Ho amato la Walton,
soprattutto, perché è stata capace di creare il più grande business di Ischia attraverso la “catego- ria dello spirito”. Contro la fisicità imprenditoriale degli ischitani – l’idea della pietra e del possesso, io mi identifico in Lady Walton. L’opera d’arte per eccellenza, poi, resta il Fungo di Lacco Ameno. Infine, l’esperienza della scrittura. Legge- rezza, disimpegno e soprattutto umorismo, questo traspare dai tuoi scritti che criticano con levità una realtà che, diciamolo, tanto lieve non è. Si può quindi dire che tu sia un intellettuale colto, ma non un “colto proble- matico”, per citare “I notturni napoletani di- visi per metafore”. Hai intenzione di pubbli- care qualcos’altro a breve?
A settembre ho iniziato l’autobiografia “I miei primi vent’anni”, che dedicherò ai miei figli più grandi. Sto decidendo se pubblicarla a mie spese e distribuirla alle persone con le quali ho un lega- me, come ho già fatto per “La rabbia esaudita per una vita sfumata”. Provo un piacere quasi sessua- le, nel farlo. Per il resto, non mi piace scrivere sag- gi veri e propri, la scrittura canonizzata fa perdere l’istintività del racconto.
Il linguaggio della sintesi, invece, è quello che ho imparato da giovane nei vicoli. È un linguaggio che parte dalla catastrofe, dalla serietà ma poi si realizza nella leggerezza. Quella della velocità è sempre stata una mia caratteristica e m’è rimasta anche nella scrittura. Devi sapere che io sono sì nato il 7 gennaio del ‘39, ma il giorno dopo, l’8 gennaio, fui veloce e precoce: chiusi con il mon- do. Avevo già capito tutto.

 

text_Vittoria Schiano Di zenise photo_Archivio Ischiacity