Wednesday, April 24, 2024

Interview_ Riccardo Sepe Visconti

Photo_ Ischiacity

L’Espresso è un coraggioso e assai serio settimanale, fra i pochissimi in Italia a svolgere autorevoli inchieste giornalistiche, spesso a costo di gravi rischi per gli stessi giornalisti che ne compongono la redazione. A questa storica testata si devono, infatti, alcune delle più gravi ed incisive indagini giornalistiche che, nate nelle pagine dell’Espresso, sono passate poi nelle mani dei magistrati per diventare casi giudiziari nazionali che hanno toccato ambiti come la politica, la criminalità, perfino retroscena che investono il Vaticano, quando non tutti e tre insieme. Tra i molti, eccellenti investigatori di cronaca che firmano le inchieste, Emiliano Fittipaldi rappresenta una delle penne di maggior spessore. Di recente, senza tregua, si è interessato (anche) degli scandali sessuali che hanno coinvolto alti prelati della Curia, ferendo in modo assai profondo la credibilità di un’istituzione mondiale che è un punto di riferimento etico come la Chiesa cattolica e, per certi aspetti, la credibilità dello stesso pontificato di papa Francesco.

Sei credente?

Sono un agnostico.

Pensi che papa Bergoglio sia un ipocrita?

No, affatto. Ma penso che la comunicazione vaticana, che non è Bergoglio, la stampa dell’America latina, e quella italiana ancora di più, raccontano questo pontificato in maniera ipocrita. E cioè senza badare a un aspetto che è fondamentale per un giornalista, cioè verificare la distanza fra le promesse che vengono dal potere – Bergoglio è uno degli uomini più potenti del pianeta, è una guida etica e spirituale per un miliardo e rotti di cattolici – e i fatti. In questo senso, individuo un vulnus, ma la stampa non lo dice. Stampa che si è fatta affascinare da un papa definito “rivoluzionario” prima ancora che iniziasse il suo corso sul soglio petrino, mettendo un’etichetta di positività a qualsiasi sua azione – da subito.

E questa la giudichi una svista da parte dei media o si tratta di un bluff?

Penso che Francesco sia rivoluzionario sotto molti punti di vista, che non sono però quelli che vengono raccontati. Le ragioni per cui è stato eletto sono tre, riavvicinare la Chiesa ai fedeli, riformare il Vaticano dal punto di vista economico e finanziario dopo gli enormi scandali che ci sono stati durante il governo del cardinale Tarcisio Bertone (fino al 2013), e portare trasparenza sulla questione pedofilia, che ha devastato gli ultimi tre anni del pontificato di Benedetto XVI.

E quali sono stati i risultati?

La prima missione l’ha assolta benissimo, attraverso una comunicazione straordinaria, con un carisma di pastore che gli ha consentito, come faceva già a Buenos Aires, di arrivare al cuore dei cattolici, ma è riuscito anche a farsi amare da moltissimi laici, alcuni addirittura mangiapreti e lo ha fatto spostando la Chiesa a sinistra, rispetto a una fase più conservatrice coincisa con il pontificato di Ratzinger.

E gli altri punti, invece?

Sul piano delle riforme in quattro anni ha concluso poco o nulla. E’ stato sì rappresentato come il papa che ha cambiato il Vaticano, ma se si guardano i fatti è stato realizzato un decimo di quello che la propaganda ha detto, in questo aiutata, come ho accennato, dai giornali latini in maniera secondo me inaccettabile. Ciò accade perché questa stampa è molto vicina al potere, nello specifico quello ecclesiastico, e quindi non riesce a guardare con la necessaria obiettività alle cose, e sceglie di dare piuttosto spazio alle emozioni.

Siamo sicuri che far passare questo tipo di informazioni sul papa non mira ad accontentare i lettori più ancora che i potenti? Lo dico perché è evidente come le homepage delle testate giornalistiche siano invase di immagini strappalacrime di gattini, orsacchiotti, storie leggere, anzi leggerissime, e l’onore della prima pagina lo si dà all’ultimo abito di Kate d’Inghilterra o di Melania Trump. Ebbene, mi chiedo se anche le notizie sul papa che fanno leva esclusivamente sull’emotività non siano frutto di questa tendenza dilagante.

Questa è la domanda chiave se si vuole affrontare il problema della crisi del giornalismo. Quest’ultimo sta andando sempre più verso il basso per poter intercettare un lettore a sua volta di livello basso, che da quando ci sono i social non legge neppure più l’homepage dei siti dei giornali, perché alle notizie ci arriva direttamente attraverso FB (e in misura minore Twitter), ma non è più abituato a confrontarsi con testi complessi. Dopo sette righe si stanca e quindi i siti di informazione per assicurarsi le visite propongono in primo piano i gattini.

E questo orientamento può spiegare la scelta di dare solo notizie emozionali sul papa?

Può darsi… Ma è un errore mostrare solo una parte della verità perché alla fine la combinazione fra la comunicazione minoritaria, attraverso il cartaceo, e quella predominante via web, porta un segno meno – fatta eccezione per testate virtuose come la nostra, L’Espresso, che però non a caso subisce una pazzesca restrizione di lettori e quindi di inserzionisti pubblicitari. Peraltro, la rincorsa verso il basso nell’informazione non risolve le cose, neppure dal punto di vista commerciale: i social sono un nostro competitor, ma noi non possiamo adeguarci a ciò che fa il web perché i suoi tanti canali sono fortissimi, se ti butti sul gattino, ci sarà sempre You Tube che è imbattibile su questi temi.

Quale soluzione proponi?

Dobbiamo continuare a fare informazione di qualità, guardando a testate come il New York Times, il Washington Post che si rivolgono a un pubblico a sua volta di qualità, molto ristretto nei numeri ma molto esigente. Se con libri come Avarizia e Lussuria ho venduto 250mila copie, e si tratta di pubblicazioni dal tono secco, puntuale, che riportano poche opinioni, fanno pochi peana, scegliendo di concentrarsi sui fatti, significa che la gente da noi vuole informazione credibile. Per sopravvivere, il giornalismo professionale deve rimanere tale, e quindi dare al lettore notizie che non avrà se non leggendo testate come la nostra – che sia su carta oppure online non è importante. E pagherà per ricevere approfondimenti, inchieste che il resto del mondo dei media, in tutte le loro forme, non riesce a dare. Ci vuole qualità, qualità, qualità; lasciare spazio ai gattini pensando che possano salvarci loro, secondo me è un errore esiziale.

Le inchieste sulle vicende del Vaticano ti hanno fatto incrociare spesso con il collega giornalista Gianluigi Nuzzi. Che rapporto c’è fra di voi, di collaborazione?

No! Lui ha iniziato su questo tema prima di me, con un taglio diverso, lo considero un competitor. Certo, abbiamo condiviso l’esperienza assurda di Vatileaks 2 e il processo e questo ci ha reso amici. Detto ciò, le nostre fonti di informazione erano simili, e quindi c’è stata una gara a chi andava prima in libreria, alla fine ci siamo arrivati insieme, senza alcun tipo di accordo. Anzi in realtà ero riuscito a fregarlo, ma quando lui ha saputo la data di uscita di Avarizia – 5 novembre 2015 – ha anticipato di una settimana, spendendo secondo me anche una certa somma, per non farmi uscire da solo! Con Lussuria è stato diverso; l’ho scritto in un anno durante il processo, invece Nuzzi di pedofilia non si è mai occupato. Quindi sono uscito in beata solitudine, su un tema difficilissimo, se ne è parlato molto meno rispetto alla precedente pubblicazione, anche se Lussuria è un libro molto più importante.

Ho letto i tuoi articoli sul tema ne L’Espresso: hai fatto denunce precise, in un certo senso violente perché violenta è la realtà che hai rappresentato. Ma è possibile che passi inosservato un libro dedicato alle vicende di alti prelati che commettono reati gravissimi e si coprono a vicenda, e a storie davvero terribili – come quella di una famiglia con due bambine abusate da un religioso preside della loro scuola, che si vede offrire 30mila euro di risarcimento (una cifra ridicola), con la minaccia, se non avesse accettato, di non ricevere neppure quello? Immagino che anche le denunce giornalistiche hanno contribuito a far luce su vicende di tale serietà.

L’episodio che ricordi ha come protagonista proprio il braccio destro di Francesco, il cardinale australiano George Pell, il quale ha gestito in maniera assolutamente discutibile i rapporti con la famiglia delle due vittime. Questo è uno dei motivi per cui mentre ero sotto processo in Vaticano e scoprivo storie del genere, che sono pubbliche in Australia ma di cui da noi non si parla, ho capito che era necessario dare spazio, oltre che al fallimento della riforma finanziaria del papa, anche al fallimento di quella riforma in direzione della trasparenza che doveva essere uno dei punti salienti della sua missione.

Come ti sei spiegato la scelta del Papa di dare al cardinale Pell un incarico di primo piano all’interno del governo della Chiesa?

Semplicemente ha sbagliato: aveva bisogno di un uomo capace nel campo finanziario, il suo nome gli è stato suggerito, i due non si conoscevano e Bergoglio lo ha presentato come colui che doveva moralizzare la corrotta Curia romana. In passato, Pell aveva già cercato di venire a Roma, ma proprio il cardinal Bertone lo aveva bloccato per accuse di pedofilia. E poi il paradosso: proprio un papa come Francesco lo nomina Prefetto della Segreteria dell’economia!

Come ha reagito la stampa a questa notizia?

Quella anglosassone affronta anche le spine di questo pontificato; in Italia, invece, hanno dedicato pochissimo spazio all’incriminazione di Pell, una nomina diretta del papa per un incarico di primo piano a una persona che si deve difendere da accuse di pedofilia, arrivata quando tutto già si sapeva, un errore gigantesco di Francesco, quindi. Non a caso testate come New York Times, Washington Post, The Guardian mi hanno chiesto un commento, mentre non lo hanno fatto i giornali italiani, con pochissime eccezioni. Su papa Francesco la stampa italiana vuole continuare a raccontare una favola che non c’è. Parlare del papa che è andato a comprarsi le scarpe da solo non è una notizia, è propaganda, si può fare ogni tanto, ma se è l’unico racconto che passa, allora si diventa il cantore del potente di turno. Eppure, i fatti mi hanno dato ragione: Pell è stato incriminato sei mesi dopo l’uscita del libro Lussuria, che a lui e alle vicende che lo vedono coinvolto è dedicato.

Il papa poteva non sapere? Non avere un dossier su questo personaggio? Sembra incredibile…

Quando ho fatto questa domanda a persone interne al Vaticano, per difendere Francesco mi hanno detto che non sapeva – peraltro io

stesso e altri cronisti abbiamo raccontato le vicende che coinvolgono Pell. Sono convinto che ciò conferma che il tema della pedofilia per lui non è prioritario. Lo dimostra il fatto che viene promosso Pell, ma anche il cardinale di Santiago del Cile Errazuriz, che è stato messo nel C9 (gruppo di cardinali che deve gestire la Chiesa universale), e che, per anni, ha nascosto cinque denunce inoltrategli da ragazzini contro un pedofilo seriale, padre Karadima, peraltro maestro di Errazuriz. E Francesco non poteva non sapere, lui era a Buenos Aires e il caso Karadima è stato sui giornali cileni per anni e anni, eppure se ne è fregato e lo ha nominato lo stesso… E ancora, il cardinale Oscar Maradiaga, uno degli uomini più vicini al papa, coordinatore del C9, agli inizi del 2000 ha difeso in tutti i modi il cardinale Bernard Law ai tempi del terribile scandalo Spotlight, dicendo che i cronisti del Boston Globe erano “servi di Israele” e, addirittura, nel 2004 ha ospitato nella sua diocesi un sacerdote pedofilo latitante del Costarica, inseguito dalla polizia di mezzo mondo. Comunque, è l’aspetto strutturale della cosa che più conta, nel senso che Francesco non ha fatto nulla dal punto di vista normativo, non ha aperto gli archivi della Congregazione per la dottrina della fede, le mille denunce che c’erano durante il suo pontificato sono raddoppiate, ciò può essere letto positivamente, ma mancano i provvedimenti. L’ONU nel 2014 ha chiesto di avere i nomi degli orchi che loro stanno processando – sono migliaia – e il Vaticano ha detto di no…

Qual è la chiave di lettura di una scelta del genere?

Dimostra che non è in atto nessuna riforma, nessuna rivoluzione in questo ambito. Francesco si sta comportando esattamente come 30 anni fa: Giovanni Paolo II addirittura li difendeva in maniera sistematica, non credeva alle accuse di pedofilia; Francesco invece fa dichiarazioni pubbliche molto forti, afferma che i pedofili sono come le messe nere. Qualcuno dice che la Curia gli impedisce di agire, qualcun altro che non è appunto una sua priorità: non lo so, ciò che interessa a me come giornalista è di non assistere a un reale cambio di passo. Sì, il cardinale Mueller è stato cacciato dal suo incarico di Prefetto per la Congregazione della dottrina della Fede, ma sembra per questioni dottrinarie, non perché non ha fatto nulla in materia di pedofilia. La Pontificia Commissione per la tutela dei minori che Mueller ha promosso è una manovra pubblicitaria, non lo dico io ma i sopravvissuti agli abusi, come Marie Collins e Peter Saunders, chiamati come componenti della commissione e poi andati via sbattendo la porta, dicendo che il Papa si muove come uno che fa solo pubbliche relazioni, che non ha alcun potere e che molti bambini venivano violentati dai preti cattolici senza che loro potessero fare praticamente nulla. Tutto ciò lascia l’amaro in bocca…

Pensi sia vero che “il Papa ha poco potere”?

Può darsi, ma se fosse così dovrebbe dirlo. Certo la Chiesa è un organismo molto complesso, il papa non può decidere tutto da solo, ma può denunciare chi cerca di fermarlo. Se davvero lo bloccano deve intervenire pubblicamente, dicendo, per esempio, che non gli consentono di aprire gli archivi della Congregazione per la dottrina della fede.

Ma questo è quello che ha già fatto Ratzinger, quando si è dimesso perché gli impedivano di compiere certi cambiamenti dentro la Chiesa.

E’ vero, Benedetto XVI si è dimesso ma non ha mai detto realmente perché ha compiuto questa scelta. Io penso fosse davvero stanco e non più in grado di continuare a combattere. Peraltro, lui sia nelle questioni finanziarie che in quelle legate alla pedofilia ha fatto più di Francesco, per esempio ha introdotto il reato di pedofilia nello Stato Vaticano (certo lì i bambini sono pochi ed è difficile che venga commesso un crimine del genere, ma dal punto di vista formale è stata una decisione forte), ha allungato i termini di prescrizione del reato di pedofilia a dieci anni oltre la maggiore età della vittima, che quindi ha tempo fino ai 28 anni per denunciare. I termini dovrebbero essere allungati ulteriormente, perché gli abusati impiegano spesso tempi lunghissimi per ammettere, in primo luogo con se stessi e poi con la famiglia e le autorità, le violenze subite. Mentre Francesco ha annunciato un tribunale per giudicare i vescovi insabbiatori, ma non lo ha creato e ha addirittura restituito la tonaca a preti pedofili seriali che erano stati spretati da Ratzinger come don Mauro Inzoli, salvo poi togliergliela di nuovo pochi giorni fa, dopo l’uscita del mio libro e lo scandalo che ne è seguito. Tutto ciò racconta di riforme fallimentari, qualsiasi sia la ragione per cui è così.

Ci sono a tuo parere aspetti positivi di questo pontificato?

Ci sono sicuramente. Penso alla capacità di comunicare di Bergoglio, al suo ecumenismo, l’incontro a Cuba con il patriarca della Chiesa Ortodossa russa Kirill rimane nella storia. Questo interessa a Francesco, essere pastore della gente e l’avvicinamento alle persone che lo amano c’è stato, come il dialogo con le altre religioni. E’ un grande capo di Stato nei rapporti con gli altri Paesi, ma non se si guarda alle riforme interne al Vaticano. Non lo critico da destra come fanno molti – per esempio giornalisti come Giuliano Ferrara e Antonio Socci, che lo considerano colui che distruggerà la Chiesa – ma da sinistra. E’ un gesuita bravissimo nella comunicazione che si muove in maniera decisa, per quanto un po’ scomposta su alcune cose, e alla fine questa volontà di mantenere tutto insieme, di combattere contro la Curia ma senza fare strappi fino in fondo, non porta a riforme né dottrinali (il Sinodo sulla famiglia è stato un fallimento, e aperture su temi come la comunione ai divorziati e gli omosessuali sono state bloccate), né all’interno della Santa Sede.

Come ha reagito la base della Chiesa alle tue inchieste e ai tuoi libri, l’hai sentita vicina o distante?

Soprattutto dopo il primo libro mi hanno molto appoggiato, ho ricevuto tantissimi messaggi dai parroci che mi dicevano “Fai bene a raccontare delle gigantesche ricchezze dei cardinali, ma sappi che noi preti facciamo un lavoro enorme con poco”. Ed è vero, tuttavia, che la Chiesa gode di ottima stampa in questo Paese, e io con il mio giornalismo di inchiesta devo concentrarmi sui problemi, piuttosto che su ciò che funziona.

Di recente, su Facebook, hai attaccato il collega giornalista Massimo Franco a proposito del cardinale Pell.

Lui ha definito l’incriminazione di Pell un’opportunità per papa Francesco, mi sembra un modo di rigirare la frittata sempre e comunque. Lo fanno molti giornalisti italiani, anche se non tutti…

Massimo Franco era a Porta a porta, il talk show di Bruno Vespa, l’unica volta in cui ero ospite anche io. In quell’occasione disse che mi ero fatto strumentalizzare dalle mie fonti. E un giornalista che afferma una cosa del genere deve cambiare mestiere, perché le fonti usano il giornalista, nel senso che quasi sempre passano le informazioni per motivi privatistici, per vendetta, per sostituire un gruppo di potere con un altro. Il giornalista conosce anche le ragioni per cui la sua fonte decide di parlare, ma non deve interessargli. La cosa importante è capire se è attendibile: se la notizia è vera, se è di interesse pubblico, ha il dovere, oltre che il diritto, di pubblicarla; anzi se la tiene in un cassetto rischia di diventare un ricattatore. Fatte le debite differenze, la fonte dei due giornalisti del caso Watergate era il numero due dell’FBI, colui che, in teoria, avrebbe dovuto difendere il presidente Nixon. Ebbene, Woodward e Bernstein non si chiesero perché avesse dato loro notizie riservate; semplicemente le presero e le usarono facendo lo scoop più grande nella storia del giornalismo americano. Qui invece, dopo aver fatto uno scoop come quello mio e di Nuzzi, finito su tutti i giornali del mondo, devi sentirti Massimo Franco che ti accusa di chissà quali complotti e di esserti “fatto usare dalle fonti”, non vinci nessun premio e finisci addirittura a processo in Vaticano: questa è la distanza fra il giornalismo italiano e quello anglosassone! Ma bisogna continuare a fare giornalismo di inchiesta, senza guardare in faccia a nessuno, ammettendo gli errori quando ci sono e chiedendo scusa, bisogna cercare di avere sempre molte fonti, per avvicinarsi il più possibile alla verità. Credo che sia un servizio che si fa al giornalismo ma anche alla democrazia. Perché la democrazia ha bisogno di questo tipo di giornalismo, non di retroscena e di veline che il potente ti passa e tu impagini e questo vale anche per i colleghi vaticanisti. Peraltro, quest’ultimo è un modo di fare che paga sempre meno, perché il potere se vuole parlare alla massa non ha bisogno necessariamente dei giornali, può farlo direttamente.