Friday, May 3, 2024

31/2011

Text: Silvia Buchner

 

Negli stessi anni del dopoguerra in cui Ischia correva verso il benessere e i suoi abitanti si trasformavano da contadini e pescatori in imprenditori e commercianti e, naturalmente, in massa sceglievano di lavorare nelle nuove, fiammanti strutture alberghiere che sorgevano ovunque, Aniellantonio Mascolo (1903-1979) fa il ritratto intenso, commosso, innamorato di quell’isola che vede mutare sotto i suoi occhi – nei luoghi e, soprattutto, nelle persone e nel loro stile di vita: ritrae il passato, sapendo bene che non può tornare. Figlio di un navigante e di una casalinga (naturalmente), Mascolo aveva tre sorelle che, insieme alla madre, lo accudirono per tutta la vita, dandogli la possibilità di coltivare la sua arte senza particolari preoccupazioni economiche. Era un personaggio francescano per l’essenzialità di vita, mangiava poco, pane e pomodoro cui toglieva i semi e acqua, niente vino. La sua casa, il laboratorio dove realizzava incisioni, sculture, mobili, e la galleria dove li vendeva distavano fra loro poche centinaia di metri, un mondo amato, rassicurante, che lo ispirava e dal quale era riamato. L’isola di Mascolo è fatta di architetture che emergono da fondi nero seppia (che solo talvolta ospitano un sole o qualche onda a identificare il mare) e che sono abitati unicamente dalle sagome di un’umanità colta nella quotidianità necessaria alla sopravvivenza. Pur essendo molto attento e cosciente dei cambiamenti impetuosi che l’attraversavano, egli non ha nessun compiacimento nostalgico: sottrae, infatti, la sua gente e la sua Ischia a cieli e mari azzurri, a sentieri polverosi, a colline verdi, insomma li priva di uno sfondo realistico, e in questo modo li sottrae al tempo e li trasporta in una dimensione che sta al di là di esso, una dimensione che sfiora il mito. Le figure solenni dei suoi ischitani compiono gesti che sono stati uguali per millenni, gesti che per generazioni e generazioni hanno significato la vita (vendemmia, vinificazione, riparazione delle reti e delle barche, raccolta della frutta, affiancati dagli onnipresenti asini e muli, supporti indispensabili per il lavoro; e poi la vita sociale, i rituali religiosi e i rarissimi svaghi, giochi a carte, il matrimonio, le bocce, il circo, “che venne nel ’55, e ricordo l’impressione che fece a tutti, figuriamoci a lui”, mi racconta Massimo Ielasi, gallerista e appassionato d’arte, che lo conobbe bene) e che l’alternarsi essenzialissimo del bianco e nero nelle sue linoleumgrafie esalta e nobilita come niente altro. Mascolo ha lavorato togliendo tutto il superfluo e riuscendo, così, a portare alla luce (che – guardatele bene! – circola abbagliante nelle sue opere) l’anima della sua terra. Artista naif, è influenzato dai primitivi, ammira la scultura di epoca romanica di Benedetto Antelami, i rilievi con le storie della Bibbia sulla facciata del duomo a Orvieto, le sculture già vicine al Rinascimento di Iacopo della Quercia, che lo folgorarono durante un soggiorno a Siena, nel 1928, dove frequenta anche l’Accademia di Belle Arti. Legatissimo (come tutti i veri ischitani!) all’isola ma aperto e curioso verso il nuovo e la scoperta, oltre che in Toscana visse a Napoli, dove il pittore ischitano Eduardo Colucci lo introdusse in un gruppo di artisti napoletani lontani dall’oleografia di stampo ottocentesco e vicini, invece, a correnti pittoriche nuove, espressioniste ed astratte, in particolare lo scultore e ceramista Antonio De Val e i pittori Edoardo (detto Buchicco) Giordano e Paolo Ricci. E proprio in quell’ambiente Mascolo conobbe lo strumento principe della sua attività di incisore, il linoleum, un supporto molto tenero, facile da lavorare, che trovò ideale al punto da preferirlo al legno. Egli non usò mai il pennello: su questi supporti con il solo gioco di pieni e vuoti creava le scene, sicuramente aiutato dalle doti di intagliatore che gli venivano dal mestiere di falegname, che fece da giovanissimo. Il colore nero veniva steso sulle parti risparmiate dall’incisione, con questa creava invece i vuoti, che nell’opera finale apparivano in bianco: l’alternarsi di bianco e nero definisce le immagini e prende corpo l’inconfondibile teatro umano di Mascolo. Poi imprimeva le sue incisioni su carta giapponese, fogli sottilissimi, tecnicamente non facili da gestire, tanto che spesso gli capitava di dover chiamare in aiuto gli amici per poter compiere l’operazione di impressione nel modo migliore. Alle incisioni Mascolo affiancò le sculture, basso e altorilievi, e statue, in legno o terracotta, riuscendo ad esaltare la bellezza del supporto naturale che diviene volto, abito, movenza dei soggetti ritratti: donne, animali, scenette di ogni giorno, i suoi familiari. Le figure delle linoleumgrafie si muovono in uno spazio senza profondità (oltre che senza colore), spesso senza alcuna ricerca prospettica, eppure… eppure l’occhio e il cuore non possono fare a meno di inseguirle tutte, di cercare i particolari, di esplorare quei mondi che nessun altro ha saputo rendere con la stessa intensità. La sua arte sta nel giocare con tutto sommato pochi, essenziali elementi, la cui ripetizione giova a creare e ricreare una Storia che non risulta mai provinciale e che non scade nel pittoresco. I personaggi sono senza volto, senza identità individuale: un altro modo per riuscire a elevarsi al di sopra delle vite dei singoli, per renderle universali, inscenando la Vita del suo modello di umanità, quella che conosceva meglio, la sua comunità. Non a caso, probabilmente, benché l’isola d’Ischia offra paesaggi e ambienti molto vari e certo Mascolo li conosceva bene, tuttavia i luoghi in cui si muovono i suoi ischitani sono scelti fra quelli in cui egli viveva: Ischia Ponte, i suoi bellissimi palazzi, i loggiati, gli archi, le scale, il Castello, il Porto, la propria abitazione. Le sue opere ne sono una precisa testimonianza, al punto che i singoli palazzi si possono riconoscere e nel confronto si possono purtroppo cogliere le sconsiderate modifiche che hanno subito in anni recenti. A questo proposito, Massimo Ielasi racconta ancora: “Aniellantonio mi chiedeva di tanto in tanto di accompagnarlo a Campagnano, per vedere e rivedere uno splendido palazzo di architettura locale che si trova appunto in quella zona e mi diceva: ‘Voglio verificare che sia ancora lì, che non lo abbiano distrutto!’ ”.

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