Thursday, April 18, 2024

GIUSEPPE FERRANDINO, L’ANTIDIVO IMMAGINIFICO

Text: Pasquale Raicaldo

Photo: Dayana Chiocca

La sveglia suona presto, prestissimo. All’alba è già tempo di passeggiare: serve a schiarirsi le idee, i primi raggi del sole portano l’ispirazione. Poi, Giuseppe Ferrandino torna a casa e scrive. Scrive, senza soluzione di continuità. Pagine e pagine. Non si chiede neanche perché, e che fine facciano sceneggiature e romanzi, interi scaffali di storie che potranno trovare un editore, un giorno. O forse no. «Perché io lo faccio soprattutto per liberarmi. Ecco, scrivere è una catarsi». Si guarda intorno, sorseggiando il suo caffè rigorosamente decaffeinato, e lo ribadisce con enfasi: «Non potrei non farlo. Non potrei non scrivere».
Con “Pericle il Nero”, in realtà, gli sarebbe anche andata benissimo: pubblicato dapprima nel 1993 con lo pseudonimo Nicola Calata, poi riedito – in seguito al clamoroso successo in Francia – da Adelphi, ha ispirato il film omonimo di Stefano Mordini con Riccardo Scamarcio. Giuseppe l’ha visto, eccome.
«Mi divertiva immaginare la resa cinematografica del mio romanzo, che è una storia di camorra e delinquenza. Se sono rimasto deluso? Diciamo che hanno trasformato la storia, e può starci. Direi anche che hanno banalizzato la storia. E poi non mi hanno mai contattato, però, né invitato alla prima del film. Io, dal canto mio, sono rimasto in disparte. Dedicandomi ad altro e affidando tutto al mio agente».
Parla poco. Misura le parole, che nel suo caso hanno sempre un peso specifico. E in fondo si distingue anche per questo, nell’affollato chiacchiericcio che lo circonda e dal quale, spesso, sembra scappare. Classe 1958, scrittore ma soprattutto fumettista. Perché Ferrandino nasce come sceneggiatore di fumetti. E certi amori non sfioriscono mai.
«I due generi, naturalmente, si intrecciano. La differenza è semplice: nella sceneggiatura hai un mediatore, il disegnatore. Nella scrittura da romanzo, invece, arrivi direttamente al lettore. Il mio cuore è legato ai fumetti, nessun dubbio».

Ecco, com’è sbocciato l’amore?
Da bambino abitavo coi nonni, ero curioso. Scoprii che nello stanzino in cui si lavavano i panni, in cima a una scala, c’era una scatola. La aprii, non potevo resistere alla tentazione: era piena di giornalini. Una vera e propria miniera, Monello e Intrepido, soprattutto. Avevo cinque anni, mi si aprì un mondo.
E si è messo in gioco.
Iniziai a sperimentare. Merito anche di Lancio Story, il cui direttore suggeriva di trasformare un fumetto in soggetto, per poi sceneggiarlo per conto proprio. Iniziai con “Incubo”, un episodio del Tex di Gianluigi Bonelli, che di lì a qualche anno avrei conosciuto in un incontro che porto ancora nel cuore. Capii che scrivere sceneggiature era una cosa che mi affascinava. Ma non sapevo dove mi avrebbe portato.
Di qui, l’esigenza di virare sui romanzi?
Ne scrissi uno e lo sottoposi all’esame di un giornalista. Che ne rimase entusiasta, ma tagliò corto: “Levati dalla testa di riuscire a vivere di letteratura”. Provai, allora, con i fumetti erotici: andò male. E iniziai a scrivere per Lancio Story. Anni Ottanta, la prima storia che mi pubblicarono fu “Messaggio per il presidente”. Studiavo Medicina, ero nella sede del Partito comunista a Napoli: ‘scroccai’ (testuale, n.d.r.) la telefonata, il direttore mi annunciò che avevano accettato la sceneggiatura. Fu una gioia immensa. Uno dei momenti più estatici della mia vita.
E il suo primo romanzo, quello che conquistò il giornalista?
Mai pubblicato. L’ho rivisto recentemente: funziona. Un poliziesco, il protagonista si chiama Zampino. Anni dopo sarebbe diventato il protagonista anche di una serie che scrissi per la rivista Orient Express, al cui direttore, Bernardi, dobbiamo tutti moltissimo, nel mondo del fumetto. Prima di lui in Italia, non esisteva letteratura legata al fumetto: lui spinse perché si creasse un fumetto d’avventura per adulti. In precedenza esistevano due generi prevalenti: per adulti, ampolloso e intellettualoide e quello per ragazzi.
Continua a scrivere, diceva.
Ho fatto tantissime sceneggiature per fumetti. Il mercato però è in mano a Bonelli, con il quale non ho molti rapporti. I miei lavori così restano nel cassetto. Ma continuo a occuparmene.
E ce n’è una che la esalta più di tutte?
Una saga su Garibaldi alla quale tengo tantissimo. Ho scritto già 26 volumi. E c’è anche un episodio legato all’isola d’Ischia, per il quale mi sono ispirato alle ricerche di Nino D’Ambra.
Il fumetto è davvero in crisi in Italia?
Altroché. Non ci sono più gli editori coraggiosi di una volta. Bonelli è riuscito a fare un po’ di grana con Dylan Dog, mentre per Tex non ci sono più gli sceneggiatori di un tempo. Gli altri editori sono scomparsi. E il fumetto è un genere che ha bisogno di rinnovarsi: internet non c’entra, con questo ‘de profundis
.
“Pericle il Nero” l’ha portata alla ribalta nazionale.
Risale ai primi anni Novanta. Era il naturale sbocco di una storia a fumetti, “Storie di cani”, in cui iniziai a trattare l’argomento camorra. Tempi d’oro, per il fumetto. Il romanzo fu pubblicato da Luigi Bernardi con Metrolibri, nessun altro lo avrebbe fatto. Adelphi lo ha ripubblicato cinque anni dopo, speravo che il film funzionasse di più.
C’è però una nuova opera, questa sì di prossima pubblicazione.
Si chiamerà “Onorato”, edita da Bompiani. E’ l’autobiografia scherzosa, scritta in prima persona, di Honoré de Balzac. Uno che ne passò di guai. Un personaggio che adoro, e che scoprii da ragazzino grazie alla biblioteca di mia zia e in particolare a “Casa di scapoli”, uno dei più bei romanzi di tutti i tempi. Io sono cresciuto in un’epoca in cui a Ischia si respirava ancora aria di Ottocento. Così, mi ci sono tuffato. E ne è venuto fuori questo libro.
E’ un personaggio ancora attuale?
E’ un personaggio che prescinde dalla categoria temporale. E’ come Platone. Per comprenderlo, per studiarlo, mi sono trasferito a Parigi diversi mesi, attingendo alla biblioteca Mitterrand e ispirandomi a materiali inediti, che ho letto con il mio francese basico, appreso neanche a dirlo grazie ai fumetti. Che, come vede, tornano sempre.
All’ultimo incontro alla biblioteca Antoniana ha detto: la sceneggiatura di fumetti può essere un genere letterario autonomo. Perché?
Dal 2002 a oggi ho scritto circa 30mila pagine. Pubblicando pochissimo. Ero molto preso dalla scrittura: per me era un’urgenza diarroica, quella di scrivere. E credo di essere riuscito a far assurgere la sceneggiatura a genere letterario. Anche se non tocca a me dirlo.
Che legame ha con Ischia?
La adoro. Ma la trovo troppo degradata. Ci vorrebbe un po’ più d’amore per questa terra meravigliosa, che in un modo o nell’altro è presente in tutti i miei romanzi. Io la chiamo Coda, e finisce anche in “Pericle il nero”. La storia di “Rosmunda l’inglese”, per esempio, è interamente ambientata a Ischia, un’isola che diventa penisola all’occorrenza e che traduce le suggestioni di Ischia, e che riflette naturalmente il mio legame viscerale con questa terra.
Dica la
verità: si sente sottovalutato?
Non ci penso proprio. Le rispondo con un esempio in grande, senza presunzione. Perché in fondo, diceva Platone, in grande si possono vedere le cose piccole. Andai a Tours, in Francia, per il bicentenario della nascita di Honoré De Balzac. Mi aspettavo grandi celebrazioni, non trovai nulla. Com’è quella storia del ‘nemo propheta in patria’?