Friday, April 26, 2024

SERVIRE NAPOLI, SERVIRE LO STATO

Interview_ Riccardo Sepe Visconti  Photo_ Riccardo Sepe Visconti  Franco Trani  ICity

Napoli, terza città d’Italia. Napoli capitale del Sud. Napoli ferita. Essere il Questore non è un mestiere facile. Due, su tutti, i compiti: garantire l’ordine e la sicurezza; contrastare il crimine con la cultura, più che con la repressione. La cultura si infiltra e resta, la repressione (pur necessaria) è legata ai singoli episodi. Di questo e della grande passione che lo lega all’anima profonda della città parlo con Antonio De Jesu.

Il vicequestore Antonio Vinciguerra, da poco promosso ai vertici della Digos a Napoli e scomparso alcune settimane fa a soli 54 anni, ha avuto un’esperienza professionale importante al comando del commissariato di Polizia di Ischia, seguendo inchieste di rilievo. Lei che lo ha conosciuto bene, ci racconta com’era la sua personalità e il rapporto che aveva con il lavoro?

Il Commissario Vinciguerra era – ed è – una persona perbene. Esistono locuzioni tipicamente partenopee che sintetizzano bene i diversi aspetti di un individuo e quando a Napoli si dice è una persona perbene si sta affermando una cosa di sostanziale importanza. Era un uomo dello Stato, che ha sempre svolto la sua attività con disciplina e onore, come recita la Costituzione – e come dovrebbero fare tutti coloro i quali ricoprono incarichi pubblici. Quanto alla sua esperienza ischitana, l’Isola è un luogo particolare, proprio in quanto isola, c’è la tendenza ad avere una visione chiusa anche sul piano politico e amministrativo, ma lui ha sempre mantenuto un atteggiamento equidistante, svolgendo un lungo mandato con professionalità e ottenendo anche ottimi risultati. Poi come in tutti i cicli della vita, dopo un certo periodo è bene che si esplorino realtà diverse, e fu trasferito al Commissariato di Sorrento. L’ultimo periodo della sua vita lo ha trascorso alla Digos, l’ufficio informativo del Questore, attività molto delicata che richiede per svolgere bene questo tipo di incarico riservatezza, equilibrio, capacità di mediazione nella gestione delle controversie, delle tensioni sociali.

Spieghiamo ai lettori in cosa consiste il lavoro di questo strategico organo della Polizia.

Diversamente dai decenni passati in cui la Digos aveva un profilo marcatamente repressivo, oggiè svolge un ruolo di cuscinetto, è una camera di mediazione che consente al Questore di avere un quadro della situazione, del livello di tensione e criticità che può caratterizzare la gestione dell’ordine pubblico. Ricordiamo che il Questore è autorità di Pubblica Sicurezza (Ndr. D’ora in avanti anche P.S.) e ha la responsabilità della gestione tecnico operativa dei servizi di ordine pubblico e per farlo ha bisogno di informazioni, il più possibile performanti, aderenti al sentimento delle tensioni sociali, per poi organizzare, attraverso l’Ufficio di Gabinetto, adeguati servizi di ordine pubblico che mirino sempre a garantire il diritto a manifestare e quello di mobilità e libertà dei cittadini. E’ una dimensione molto delicata e non esistono equazioni magiche, manuali che diano direttive. Ma una cosa è certa, più l’azione informativa è di alta qualità, più il Questore può lavorare per organizzare i relativi servizi di ordine pubblico in maniera efficiente – nella strategia che va adottata, nel numero di uomini da impiegare. Quindi i profili del personale che appartiene alla Digos sono per il Questore fondamentali. Le valutazioni e pianificazioni che faccio attraverso l’ufficio di Gabinetto vengono tarate sulle informative che arrivano dai funzionari della Digos e poi dai Commissariati e dalle Compagnie dei Carabinieri. Il Questore, infatti, è insieme a capo di una delle quattro forze di Polizia e autorità provinciale di sicurezza e in quanto tale sulla base delle informazioni ricevute emana l’ordinanza in cui detta la linea dell’azione in tutta la città metropolitana.

Questa linea strategica risente necessariamente delle posizioni della politica, nel senso che il Questore deve anche interpretare le direttive che arrivano dal Governo, che si muove sulla base di un progetto appunto politico. Facciamo un esempio concreto: quando c’è stato il G7 dei ministri dell’Interno a Ischia, il ministero era guidato da Marco Minniti, oggi in quel ruolo c’è Matteo Salvini, persone che hanno idee molto diverse…

Posta così la domanda, fa pensare che la politica possa guidare i processi dal punto di vista tecnico operativo e ciò non è corretto. La politica dà indirizzi generali, ma poi c’è una struttura. La legge 121, che ha riformato l’amministrazione della pubblica sicurezza, detta l’impianto di come si gestisce l’ordine pubblico e dice che, al di là della sua funzione politica, il ministro dell’Interno è anche l’autorità nazionale di P.S. Il capo della Polizia è capo della Polizia e direttore generale della P.S. e ha il compito di diramare le indicazioni per trasfondere la politica dell’autorità nazionale di P.S. nel territorio. Nelle realtà provinciali le autorità di P.S. sono Prefetto e Questore, quindi le decisioni le prendiamo noi sul piano operativo. I compiti dell’autorità di P.S. sono stabiliti dalla legge e dipendono poco dall’indirizzo politico. Non c’è un diktat politico per cui un governo a secondo se è di destra o di sinistra può dare indicazioni differenti. E poi, quale che sia l’indirizzo politico, c’è la Costituzione che detta le regole per la gestione dell’ordine pubblico. Faccio un altro esempio per chiarire meglio. Quando si dice il Questore “autorizza” le manifestazioni, non è un’espressione giusta: la Costituzione con l’art 17 legittima le manifestazioni, affermando che chiunque può manifestare liberamente, senza essere soggetto ad autorizzazione del Questore. E di conseguenza il Testo Unico della legge sulla P.S. autorizza le manifestazioni: unico obbligo per i promotori preavvisare tre giorni prima dell’evento l’autorità di P.S., cioè la Questura, per ragioni di sicurezza e ordine pubblico. Questo perché si abbia il tempo di eseguire delle valutazioni: sul percorso, su una eventuale contestualità con altre manifestazioni, sul fatto (con comprovate motivazioni) che quella manifestazione possa generare problemi all’ordine e alla sicurezza. In quel caso il Questore può porre delle restrizioni o vietare la manifestazione. Durante il G7 a Ischia, per esempio, decisi di non impedire ai manifestanti contrari al summit di venire nell’isola, proprio per non avere problemi di eventuali disordini. Ma con dei temperamenti: avevano chiesto di raggiungere un certo luogo, io ho dato prescrizioni differenti, se le avessero violate sarebbero stati denunciati all’autorità di P.S.

Che riscontri hanno avuto queste decisioni? Come sono state commentate?

Abbiamo sicuramente dimostrato, insieme al mio staff, di saper controllare una situazione di ordine pubblico delicata, in cui si è garantita la legittima esigenza di manifestare dei centri sociali e la sicurezza delle persone.

Parliamo di Ischia, un’isola a fortissima vocazione turistica: dal suo punto di vista, la considera sicura?

Certamente rispetto a 20 anni fa la situazione è migliorata moltissimo, anche grazie alla riqualificazione socio-urbanistica e all’attività di controllo per cui nel tempo sono state individuate persone che nell’isola non potevano venire e hanno ricevuto il foglio di via. A Lacco Ameno, per esempio, che era il covo dei “Forcelliani”, con le attività di controllo si è creata una situazione di non appetibilità per persone del genere che oggi preferiscono andare altrove. Gli episodi che necessitano del nostro intervento registrati attualmente attengono piuttosto alla devianza giovanile o comunque riguardano persone stanziali, non venute da fuori.

Quella di Napoli e provincia, invece, è una realtà estremamente più complessa. Pensa di aver bisogno di maggiori forze da mettere in campo?

Lavoro con le forze che ho perché questo è il compito di un funzionario dello Stato. Certo mi auguro che si possano avere maggiori risorse, ma non mi sentirà mai dire “ho bisogno di 100 o 1000 uomini in più”. Punto molto sul coordinamento fra le forze di polizia che è un grande valore aggiunto: grazie alla lealtà che c’è fra di noi abbiamo un’intesa notevole con CC e Guardia di Finanza e facciamo in modo da evitare duplicazioni e sovrapposizioni.

A Napoli fra stese e paranze dei bambini, la criminalità appare molto cambiata, anche sul piano qualitativo, diventando forse più difficile da controllare.

Fra i comuni dell’hinterland, ci sono aree come Afragola, Giugliano, Marano, Torre Annunziata, Torre del Greco dove il nocciolo storico della camorra, i grandi big di un tempo, per esempio le famiglie Mallardo, Contini, Licciardi a Giugliano, per lo più sono in galera, grazie all’attività delle forze dell’ordine coordinate dalla procura della DDA, che negli ultimi 10-15 anni ha svolto un lavoro egregio. Ciò ha generato nell’area centrale della città una magmaticità, una situazione liquida dal punto di vista degli equilibri. Io ho 45 anni di servizio e negli anni ‘80 ci furono scontri con 250 morti in un anno. Oggi è nettamente inferiore il numero degli omicidi. Quanto alle stese, sono frutto del delirio di onnipotenza di ragazzi, ma dal loro punto di vista strategicamente costituiscono una mossa sbagliata: è un comportamento tipico di criminali che scimmiottano i ‘gomorroidi’ e pensano di poter esercitare un dominio sul territorio, ma finiscono solo per attirare l’attenzione delle forze di polizia. Questi episodi plateali generano naturalmente una percezione di insicurezza nei cittadini, giornali e media ne parlano. Ma noi siamo sempre molto pronti a intervenire nei casi di devianza giovanile, dagli episodi di Arturo e Gaetano, i due ragazzini aggrediti con violenza in centro città e a Chiaiano (Ndr. Lo scorso inverno il 17enne Arturo fu accoltellato alla gola per rapinarlo del cellulare e il 15enne Gaetano è stato vittima di una brutale aggressione a calci per cui gli è stata asportata la milza: in entrambi i casi gli aggressori erano babygang di giovanissimi) fino ai tre minorenni che hanno ucciso la guardia giurata a Piscinola (Ndr. Nel marzo scorso una guardia giurata è stata picchiata a morte da tre 16-17enni che tentavano di rubargli la pistola): in tutti questi casi, per citare i più recenti, la nostra risposta investigativa è stata tempestiva ed efficace. In realtà, episodi del genere vanno avanti da moltissimi anni (se guarda la rassegna stampa del 2004, per esempio, troverà gli stessi titoli relativi a reati commessi da baby gang, accoltellamenti, emergenza criminalità). E’ inadeguato parlare solo di controllo del territorio, di attività repressiva, siamo un paese democratico – vivaddio – garantista, e abbiamo una legislazione sui minorenni di cui dobbiamo prendere atto.

Siamo forse un paese troppo garantista?

Non voglio entrare in queste scelte che attengono alla politica. Come funzionario dello Stato, infatti, lavoro nel quadro delle leggi esistenti e nel caso specifico dei minorenni, l’attuale legislazione tende a escludere la detenzione a favore del recupero. Saranno sociologi, politologi, professionisti del settore a stabilire se questa normativa è adeguata o meno al livello di aggressività raggiunto dai ragazzi.

Cosa pensa del fatto che personaggi come Genni Savastano creato dagli sceneggiatori di Gomorra, fra i quali c’è lo stesso Roberto Saviano, siano presi a modello da un certo tipo di giovani?

A me Gomorra piace, è un prodotto ben fatto, non hanno dato a un attore come Raul Bova il ruolo del protagonista: giustamente, invece, hanno scelto come interpreti persone che vivono borderline in quel quartiere e riescono a rappresentare in maniera anche realistica e credibile quel mondo e la sua dimensione criminale. Ricordiamoci che è imperniato su un evento ben preciso, la faida di Scampia del 2004, in cui furono uccise almeno 50 persone, e riproduce la realtà di quegli anni – anche se certi comportamenti tenuti dai malavitosi sono sempre attuali. Può influenzare i giovani dal punto di vista estetico (come si tagliano i capelli o in taluni atteggiamenti), ma da qui a pensare che la visione della fiction Gomorra induca a impugnare un’arma e a fare una stesa, questo non lo credo. E’ un fenomeno che ha cause molto più profonde, nasce dal malessere che c’è nei quartieri della città. Quello che mi sento di mettere in evidenza, però, è che una serie televisiva che va in 160 paesi di tutto il mondo nella rappresentazione della camorra deve mostrare anche l’azione di contrasto, che è forte, e che invece non appare. Ma la storia segue le esigenze degli autori che ritengono si debba puntare solo sul male. E se dovessi dire qualcosa, direi che andrebbe dato uno spazio ai tantissimi investigatori che lavorano contro il crimine, alla gente che è morta per opporsi a quel sistema o ha subito gravi lesioni, come il sovrintendente della Mobile Nicola Barbato, che in servizio anti estorsione a Fuorigrotta è stato coinvolto in una sparatoria ed è finito sulla sedia a rotelle.

Come si combatte quel malessere in cui lei vede la causa dell’adesione all’illegalità di tanti giovani napoletani?

Si devono creare centri di aggregazione nei quartieri e ci sono bellissimi esempi di attività del genere. Alla Sanità si è sviluppato un modello da seguire: è un pullulare di attività grazie al presidente della municipalità Ivo Poggiani, che stiamo accompagnando nel suo operato e che si sta muovendo molto bene, a padre Antonio Loffredo e al PON Sicurezza del Ministero dell’Interno che finanzierà il lavoro di 400 educatori di strada, persone che seguiranno nella loro vita quotidiana (accompagnandoli a scuola, stando insieme a loro) 400 ragazzi fra i più disagiati del quartiere. Padre Loffredo due mesi fa mi ha detto che i ragazzi gli hanno chiesto di aprire una palestra di pugilato e ha aggiunto che la cosa andava fatta subito, chiedendomi una mano. Io ho parlato con alcuni tecnici delle Fiamme Oro (Ndr. il gruppo sportivo della Polizia di Stato), lui ha messo a disposizione la sacrestia – e non è una cosa scontata, perché a qualcuno una scelta del genere ‘potrebbe non piacere’. Vent’anni fa l’idea che ragazzi della Sanità andassero in palestra dentro una chiesa con degli ‘sbirri’ come allenatori sarebbe stata inconcepibile. Invece, oggi vengono, fanno attività e io la considero una rivoluzione culturale, un segno. Ancora, alla piscina militare Albricci la Federazione Nuoto, supportata sempre dai nostri atleti, assiste 400 ragazzi che praticano nuoto, ma fanno anche educazione alla legalità, un grande lavoro insomma. L’imprenditore Enzo De Paola ha creato senza finanziamenti pubblici l’orchestra dei Quartieri Spagnoli, composta da 42 giovani dai 7 ai 14 anni. Si deve stare sul posto, nel Bronx (Ndr. S. Giovanni a Teduccio), a Scampia, e creare occasioni di aggregazione, i giovani vanno attirati con il gioco, con lo sport e poi si può lavorare sulle coscienze, sull’anima dei ragazzi. Su questo tema c’è un bellissimo film che considero un monumento, è “Io speriamo che me la cavo” che racconta bene come il senso del lavoro degli educatori di strada è di uscire dalla scuola per andare nelle famiglie e capire perché i bambini non vanno a scuola, conquistando la loro fiducia. Ecco, questo metodo lo si sta sperimentando alla Sanità. Penso che nessuna moglie di camorrista che abbia dei figli desideri per loro la stessa vita del padre e se ci sono strutture che si occupano di loro, che li intrattengono con attività che piacciono ai giovani, il più delle volte i ragazzi le frequentano. Una volta lì tocca alle persone che gestiscono queste strutture lavorare anche sulla loro formazione come cittadini. Io sono nato a Secondigliano e andavo all’oratorio con piacere, perché era stato creato un ambiente adatto a dei ragazzini come noi: c’erano gli amici, giocavamo a biliardino o a ping pong, mangiavamo insieme e poi il parroco ci diceva “Adesso parliamo di Gesù”, dato che si trattava della parrocchia, e svolgeva il suo compito di educatore. Per le associazioni laiche il meccanismo è il medesimo e possono lavorare intorno a temi etici e civili, l’importante è che ci siano i contesti giusti dove parlare ai giovani.

A questi giovani però si deve anche garantire la prospettiva di un lavoro…

Lo Stato non deve dare il lavoro, ma gli strumenti per poterselo conquistare. Questa idea che lo Stato debba provvedere la trovo riduttiva: ho lavorato per un anno a Milano e lì non si piangono addosso. Una volta i genitori pagavano gli artigiani esperti per prendere i figli come apprendisti e insegnare loro un mestiere.

Sicuramente uno degli ambiti da sviluppare per produrre nuovi posti di lavoro è il settore del turismo, tanto più adesso che Napoli sta vivendo un periodo molto positivo da questo punto di vista. E il turista quando cerca una meta mette fra i requisiti che lo inducono a scegliere una determinata località anche la sicurezza, certamente rispetto agli attentati, ma anche la sicurezza del territorio cittadino in cui deve muoversi e in questo senso il ruolo della Questura è fondamentale per contribuire al rilancio di un territorio in chiave turistica.

E’ vero, Napoli da qualche anno a questa parte è una meta turistica ricercata: sarebbe facile dirle che se è così significa che la gente qui si sente al sicuro, tuttavia io insisto sul fatto che si debba lavorare in maniera capillare fra la gente.

Cosa fa veramente paura ad Antonio De Jesu?

Io sono un vecchio sbirro. Sono un sopravvissuto: negli anni ‘80 sono stato molto impegnato in una situazione che definirei la ‘tempesta perfetta’. Ero il vicecapo di una squadra speciale anticamorra di 50 uomini, molto aggressiva, e nel 1982 in un conflitto a fuoco in cui morì un latitante sono rimasto ferito ad una gamba, spezzata da un proiettile. Fu un periodo intenso, si contavano 200 persone uccise all’anno. Non ho avuto paura, ma ho sempre cercato di fare il massimo per garantire i livelli di sicurezza più adeguati.

Quando ho intervistato il magistrato che indaga contro la ‘ndrangheta, Nicola Gratteri, mi disse che per lui la paura è “quando senti l’amaro in bocca”…

A Napoli è tutto diverso dalla Calabria, dove opera Gratteri. La ‘Ndrangheta è il più forte sodalizio malavitoso del mondo, da tempo i suoi affiliati sono usciti dalla Regione in cui sono nati e si sono diffusi ovunque, in Lombardia, in Emilia Romagna sono presenti da 40 anni. Quando ero questore a Milano, dicevo che la ‘ndrangheta è come il diavolo, il capolavoro del diavolo è convincere tutti della propria inesistenza. Per decenni lì si è detto che la ‘ndrangheta non c’era, in realtà si sono radicati nelle comunità e adesso vanno oltre, in Australia, Canada, Colombia dove gestiscono affari immensi. Nelle regioni del Nord Italia non ne avverti la presenza, non uccidono, non fanno attentati, sembrano fantasmi, perché sono andati oltre tutto questo, hanno stretto il patto col diavolo con l’impresa – e non da ora. C’è un bellissimo film documentario che va visto per capire il fenomeno ‘ndrangheta, “Anime nere”. Protagonisti tre fratelli, uno vive in un paesino in Calabria fra le pecore, e ha le relazioni con i mammasantissima locali, perché la forza degli affiliati alla ‘ndrangheta è che gli equilibri di rapporti che ci sono lì riescono a trasferirli per il mondo. Nel 2010 i Carabinieri con l’operazione “Crimine Infinito” hanno provato quello che le ho detto, che gli equilibri fra le famiglie ‘ndranghetiste stabiliti in Calabria si riproducevano identici in modo impressionante a Milano e così in Quebec o in Australia. Tornando al film, il secondo fratello traffica droga, il terzo sta a Milano, sposa una milanese e si dedica agli affari!

Cito le sue parole e le chiedo: in base alla sua esperienza di vecchio sbirro, da dove pensa che possa venire il pericolo per il futuro di Napoli?

Grazie al grande lavoro della DDA e della Procura, al sacrificio di persone come Paolo Borsellino cui dobbiamo l’intuizione di creare la sezione specializzata sulla mafia della Procura, le indagini sono continue; ma la città si deve riscattare dal basso. Noi per quanto lavoriamo non possiamo deportare gli abitanti di certi quartieri, hanno diritto a stare lì, è gente che si aggrega e noi possiamo contenere alcune forme di devianza, ma si deve lavorare per creare l’integrazione di queste persone. La presenza dei clan camorristici ha sempre connotato Napoli, si sono evoluti, sono mutati, ma ci sono e tanti vivono commettendo reati. Dobbiamo compiere una forte azione di prevenzione e di investigazione, come già accade, ma il disagio va intercettato e neutralizzato a monte. Lo dico sempre, e non è frutto di una visione romantica che non mi appartiene. Consideriamo i ragazzi che hanno accoltellato Arturo, fatto perdere la milza a Gaetano, pestato a morte la guardia giurata, ebbene, quando avevano un anno la tenerezza dei loro occhi era la stessa che si trova negli occhi dei figli della borghesia. Bisogna chiedersi perché 15 anni dopo commettono atti così terribili… Qui entra in gioco il contesto in cui sono cresciuti: alcuni sono stati seguiti, sono stati comunicati loro valori positivi, altri invece a 16 anni uccidono una guardia giurata… Si deve lavorare su quel lasso di tempo, capire cosa manca, cosa c’è che non va. Intendiamoci la mia non è un’ottica giustificazionista, tuttavia si deve approfondire la ragione di comportamenti tanto violenti in persone tanto giovani. Faccio l’esempio del ragazzo che ha accoltellato Arturo, soprannominato ‘il nano’: è nato e cresciuto in un basso, la madre ha tre figli con 3 padri diversi, e lui ha trascorso il suo tempo nel basso fumando sigarette. E quando esce trova il marciapiede, intendo in senso proprio, sta in strada, la vive e la strada in alcune zone sensibili ti insegna che devi fare branco perché da solo sei debole, e insieme danno il peggio di sé. Intervenire su tutto questo è un lavoro duro, un cammino che in vari quartieri di Napoli è stato intrapreso, ma i progetti dovrebbero aumentare in maniera esponenziale.