Saturday, April 27, 2024

Architecture- PE’ TERRE ASSAJE LUNTANE

n.17/2007

Photo: Archivio Domenico Iacono
Text: Salvatore Ronga

 

Le belle immagini e i testi di questo speciale in bianco e nero costituiscono un assaggio di una delle manifestazioni che ci sono piaciute di più nell’estate ischitana: la 4° edizione di “Pe’ terre assaje luntane”, che si è tenuta nel mese di settembre al borgo dell’Arso, a Ischia. Il lavoro accurato, appassionato, sensibile di Salvatore Ronga e di tutti quanti hanno collaborato con lui nelle ricerche e nell’allestimento ha regalato a ischitani e turisti 4 giorni di cultura e spettacolo dedicati all’emigrazione ischitana verso le Americhe agli inizi del ‘900. Un’epoca certo ‘assaje luntana’ ma il cui influsso è ancora molto presente nella vita di tante famiglie dell’isola e che, attraverso la mostra che si è calata nei vicoli e negli androni dei palazzi della Mandra, lo spettacolo tratto dal romanzo “America” di Kafka, allestito dalla compagnia Officina Artètéka, le proiezioni, il notevole catalogo, ha preso miracolosamente vita. Gli articoli pubblicati sono alcuni (necessariamente ridotti) di quelli che costituiscono il catalogo della mostra: chi desiderasse acquistarne una copia può chiamare i numeri telefonici indicati nel sito www.ischitaninelmondo.it
Nel settembre del 1926 Monsignor Onofrio Buonocore diede alle stampe un opuscolo dedicato alla chiesa dell’Addolorata, per celebrare il cinquantesimo anniversario della sua fondazione. Questo scarno libretto si apre con alcune notizie riguardanti le vicende costruttive dell’edificio e si chiude con un lungo elenco di nomi, accompagnati dalle relative offerte. Sono nomi familiari, perché appartengono a persone del luogo, emigrate a San Pedro, in California. L’idea della mostra “Pe’ terre assaje luntane” nasce tra questi nomi, dall’idea che queste offerte raccolte in terra americana non rappresentino un episodio esclusivamente devozionale, ma costituiscano l’ennesimo filo tessuto dai nostri concittadini d’oltreoceano per mantenere ben saldo il legame con la terra d’origine. Il tentativo di ricostruire, attraverso i documenti e le testimonianze, l’identità e le vicende di queste persone, legate alla chiesetta a dispetto delle lunghe distanze, si è offerto come motivo per ricostruire la nostra stessa identità di Ischitani e per celebrare una pagina, forse rimossa, della nostra storia.

Nell’articolo redatto da Doro Rossetti, in occasione del viaggio inaugurale del transatlantico Conte Grande, si elencano i motivi che inducono i passeggeri americani a preferire i transatlantici di casa nostra e, in questo contesto, si dà rilievo all’occasione di ammirare i paesaggi tra i più suggestivi che una rotta possa offrire, come “la vulcanica Isola d’Ischia”. Il passaggio dei piroscafi lungo le nostre coste è, peraltro, immortalato in una vecchia cartolina, dove la sagoma elegante del “Conte di Savoia” fende le acque al largo del Castello Aragonese, e non è difficile immaginare lo stupore dei pescatori della Mandra all’apparire della candida silhouette, preceduta dall’ingrossarsi dei marosi. “Mamma mia! E’ nu palazzo ‘e casa ca cammina pe’ copp’ a ll’acqua!” potremmo aggiungere a completamento della scena, rubando la battuta a una celebre pièce di Raffaele Viviani. E’ forse così che il “Sogno americano” si prospetta ai pescatori ischitani: un piroscafo all’orizzonte che trascina sulla sua scia schiumante l’illusione di reti colme in un mare diverso. Un’illusione questa che la scoperta di un’altra Ischia, sulle coste della California, non tradisce. A partire dalla prima metà del Novecento, San Pedro diventa la destinazione privilegiata di un flusso migratorio vertiginoso: immigrati che da New York si spostano sulla costa occidentale e richiamano le famiglie.
La porta del Nuovo Mondo ha le dimensioni di una passerella affollata, quella del molo di Ellis Island, l’accesso alla speranza il suono della risposta giusta alla domanda dell’ispettore di turno nella “Registry Room” della stazione. Sullo sfondo di questo “Sogno americano” campeggia la sagoma della Statua della Libertà, che la visione profetica di Kafka nell’incipit del suo romanzo incompiuto, “America”, immagina nell’atto di sollevare una spada, in luogo della torcia.
Sui pescherecci, nella baia di San Pedro, i pescatori immigrati ricostruiscono, pazienti, la loro identità di Ischitani, nel continuo adattamento di tecniche e mestieri che il crogiuolo di etnie impone. All’ombra della “Mary Star”, la chiesa cattolica, si rinnovano feste e devozioni, tra barche pavesate e santi in processione, come a rinnovare tradizioni ischitane, delle quali si vuole, con ostinazione, preservare la memoria. E’ a San Pedro, come osserva l’antropologa americana Luisa Del Giudice, che la comunità ischitana si presenta a tal punto compatta da replicare l’originaria dimensione insulare. E se questa dimensione è, nel tempo, inficiata dalla crisi progressiva dell’industria peschiera, è pur vero che le nuove generazioni sembrano voler conservare il legame con la terra d’origine, come testimonia il recente gemellaggio tra la città d’Ischia e quella di San Pedro, nonché numerose altre iniziative, tra le quali anche la nostra, che giunge quest’anno alla sua quarta edizione.

Quando a metà degli anni Trenta il Commissario Generale per l’Immigrazione, Edward Corsi, sottolineava, orgoglioso, come le radici identitarie della nazione americana fossero da ricercarsi non solo sulle rive del Plymouth, lo storico approdo dei Padri Pellegrini, ma anche sul molo di Ellis Island, dove egli stesso, ancora bambino, era sbarcato nei primi anni del Novecento, la stagione dei grandi flussi immigratori era definitivamente conclusa.
Nel 1917 il test dell’alfabetismo, la Literacy Test, era stato introdotto nella procedura d’ispezione a Ellis, con l’intento di limitare il flusso immigratorio proveniente dal continente asiatico. Nei fatti il test stroncava pesantemente anche l’immigrazione di matrice europea, considerando lo scarso grado di scolarizzazione delle classi sociali più povere in Europa. La Grande Guerra aveva segnato peraltro una cesura profonda nella continuità del flusso immigratorio che dalla quota di 178.000 unità registrata nel 1915 era precipitato alla quota di 26.000 unità nel 1919. La stazione di Ellis Island era ridotta, praticamente, a un villaggio deserto.
Ben diversa era stata la situazione nei primi anni del secolo, quando la nuova stazione era stata inondata da flussi superiori al milione di immigrati annuali e un costante ampliamento delle attrezzature predisposte all’accoglienza durante la gestione del commissario Williams era stata appoggiata dalla stampa e dall’opinione pubblica.
La febbrile espansione economica dell’America d’inizio secolo imponeva l’esigenza di un’ingente forza-lavoro, ma, allo stesso tempo, il vero e proprio esodo verso il “Nuovo Mondo” rendeva necessarie procedure d’ingresso che fossero rigorose ed efficienti.
E’ nel rapporto tra queste due istanze non sempre conciliabili la ragione profonda di un atteggiamento rigoroso e, al contempo, comprensivo nelle autorità preposte all’ispezione, che non poteva non essere percepito come contraddittorio dagli immigrati. L’impatto con una realtà complessa come quella di Ellis Island generava nel nuovo arrivato l’amara impressione di essere un semplice numero quando all’ingresso della Baggage Room gli veniva consegnata l’Inspection Card. La visione dei medici in cima alla scala, che conduceva alla parte medica della procedura d’ammissione, non poteva non suscitare il dubbio che il sospirato “sogno americano” si prospettasse nella forma dell’incubo.

Nel quadro dell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti, il fenomeno ischitano assume caratteristiche peculiari, originandosi da un complesso di concause legate alle particolari vicende economiche dell’isola.
La lettura degli archivi di Ellis Island, supportata dal riscontro di altre fonti documentarie e delle indispensabili testimonianze orali, ci restituisce uno specchio pressoché fedele delle condizioni in cui versano le classi più disagiate dell’Ischia d’inizio secolo.
Dai primi anni d’apertura della stazione fino al 1915, con l’ingresso italiano nel conflitto bellico, si registra una crescita progressiva della presenza di immigrati ischitani nei documenti d’ispezione. Per gli immigrati di prima generazione, tuttavia, la Registry Room segna una vera e propria linea di frontiera. Il questionario d’ingresso, oltre a registrare l’identità dell’immigrato e le relative condizioni di salute, è finalizzato soprattutto a verificare che l’esaminato non costituisca un “peso” per la società. A questo scopo, si richiede di specificare la professione e di dimostrare di avere già un contratto di lavoro o, comunque, la possibilità di svolgere un’occupazione.
Per quel che riguarda gli immigrati provenienti dal comune di Ischia, la professione dichiarata è quasi esclusivamente quella del marinaio. Con il termine sailor si vuole indicare una competenza generica in tutte le attività legate al mare, dalla pesca vera e propria all’imbarco sulle grandi navi mercantili, ma anche la più semplice manovalanza nelle operazioni di stoccaggio delle merci. Il termine fisherman, pescatore, compare sporadicamente negli archivi. Sono pochissimi i contadini e, se non si hanno competenze professionali specifiche, si è classificati semplicemente come braccianti, pura forza-lavoro.
In generale, sorprende la giovanissima età degli Ischitani che giungono a Ellis Island. L’età media è intorno ai vent’anni e sono pochi gli immigrati che hanno superato i quarant’anni di età. La quasi totalità degli esaminati è analfabeta e, salvo rare eccezioni, sono per lo più adolescenti i soli capaci di leggere e scrivere.
All’analfabetismo diffuso bisogna poi aggiungere la scarsa comprensione della propria lingua nazionale. Sebbene nella Registry Room fossero presenti interpreti di ben trenta lingue straniere, a molti Ischitani, che parlavano esclusivamente il proprio dialetto, le domande, anche se tradotte in italiano, risultavano ugualmente incomprensibili.

Queste note traggono motivo dal recente viaggio inaugurale (ndr. nel 1928) del “Conte Grande”, nuovo magnifico piroscafo del “Lloyd Sabaudo” che ripete le linee e i pregi del già famoso “Conte Biancamano”, e vogliono essere una gradita constatazione del sempre più largo predominio che la marina mercantile italiana va acquistando nei trasporti fra l’Europa e gli Stati Uniti. Vivissimo è intanto il nostro compiacimento nel rilevare come le più alte personalità del mondo politico e finanziario nord-americano preferiscano ormai indirizzarsi ai nostri porti, su navi nostre, anziché a Cherbourg, Southampton, Amburgo, con transatlantici stranieri che pure vantano una stazza maggiore e una maggiore velocità.
La rotta di questi, svolgendosi a nord, verso la Manica, è più breve di quella meridionale che, attraverso lo stretto di Gibilterra, conduce a Napoli e a Genova. Per arrivare a questi ultimi porti occorrono da venti a quarant’ore di navigazione in più: ma il tempo maggiore è spesso compensato dal migliore stato del mare, dalle migliori condizioni atmosferiche. E’ compensato, in fine e sempre, dal punto d’arrivo.
A chi viene d’oltre Oceano l’Italia non potrebbe presentarsi, del resto, in modo migliore. Sia che il piroscafo passi tra l’isola di Capri e la penisola Sorrentina, sia che costeggi la vulcanica isola d’Ischia, col suo fiero castello aragonese che ospitò Vittoria Colonna, l’isola minore di Procida, il capo Misero e la punta di Posillipo, risonante nei ricordi musicali di tutti gli uomini d’ogni emisfero, difficile è dire l’emozione che provoca in tutti lo sconfinato panorama di quella città cui sovrasta il fumigante cono del Vesuvio. E’ una visione che varia secondo le luci del giorno e la trasparenza dell’aria: e raramente è guastata da nebbie o vapori. Talvolta, nelle ore pomeridiane, lo sfolgorio del sole sembra avvolgere la città in un pulviscolo d’oro; e chi così l’ha vista, non può sognare un incanto maggiore. Aggiungete a tanta bellezza di natura il ricordo del grande passato storico, dei tesori d’arte racchiusi nei suoi musei, della festosità istintiva dei suoi abitanti, e comprenderete la letizia che tutti prende nell’appressarsi a un tal lido.
A New York non si arriva con uno spirito uguale. La portentosa metropoli stupisce per l’insolita mole delle costruzioni; la si ammira per questi suoi ardimenti e per l’intensità del traffico che d’ogni parte vi si rivela: ma la si avvicina con qualche trepidanza, quasi che il turbine della vita che vi circola possa malamente investirci e travolgerci. (…) I grattacieli sembrano immensi alveari umani; ed anche nell’interno le stanze hanno l’uniformità dei favi. Vi si giunge per corridoi oscuri, dopo essere saliti nella cassa di ascensori, cui si accede da anditi senza finestre. Dappertutto, per tutte le ventiquattr’ore del giorno, luce elettrica. Si dice che i grattacieli sono edifici che non potranno sfidare i secoli: si dice anzi che già ne è previsto l’abbattimento dopo un certo numero di anni. L’America lavora per il presente, non per i posteri. Fa bene o fa male? Chi lo sa? Noi, per tradizione, amiamo le opere destinate a durare. (…)
IL CONTE GRANDE
(…) Il “Conte Grande” è l’ultima delle unità navali entrate a far parte del nostro naviglio mercantile per il traffico col Nord-America e riassume in sé le caratteristiche principali che per quel traffico sono richieste. (…) Il “Conte Grande” ha una stazza lorda di circa 26.000 tonnellate, che è fra le maggiori, pur senza raggiungere le massime. (…) La mole poderosa del piroscafo offre ogni preventiva garanzia che esso saprà tenere bene il mare, come in effetti lo tiene. E il numero dei passeggeri, che può raggiungere i 332 nelle cabine di lusso e complessivamente, per tutte le classi, un massimo di 1718, non è tale da impensierire quelli che temono le confusioni e forse più ancora il disconoscimento della propria personalità.
Per quanto breve poi possa essere il tragitto, tutti gli ospiti della nave desiderano conoscersi reciprocamente per potersi affiatare e accompagnare coi più affini. (……) Questo avviene assai più di frequente sui piroscafi italiani che su quelli stranieri: ed è un pregio inestimabile, il cui merito spetta tanto a chi ha costruito la nave, quanto a coloro che vi prestano l’opera. Certe sale da pranzo di piroscafi tedeschi sono, ad esempio, così tetre, pesanti e barocche da far scappare l’appetito anche al più famelico ghiottone. Nel “Conte Grande” invece l’architetto Brasini di Roma ha disegnato una sala da pranzo arditissima nei suoi richiami agli stili, ai colori e ai marmi antichi, che è tutto un poema di vivacità e d’allegrezza. Non meno gaio è il salone da ballo, ideato dall’architetto Coppedè di Firenze, con una fantasmagorica policromia di stucchi, di vetri e di specchi e in cui di fronte al palco per l’orchestra s’apre una magnifica uccelliera, popolata di variopinti uccello canori, che, spesso e volentieri, quasi a scorno degli esotismi oggi in voga, rispondono coi loro trilli argentini ai gutturali singulti sincopati del saxofono. Iniziata questa rassegna di benemerenze, sarebbe ingiusto non nominare anche l’architetto Pulitzer di Trieste. Si deve a lui il disegno della sobria, severa, indovinatissima sala di scrittura, in stile elisabettiano: e a lui si deve pure il progetto di quello che è l’ambiente più nuovo e caratteristico di tutto il bastimento, la grande piscina, in stile giapponese.
Sul “Conte Grande”non vi è restaurant o grill-room; vi è una mensa unica con libera scelta delle pietanze. Vi sono salottini separati per quelle famiglie o quei gruppi di amici, che desiderassero appartarsi; ma è abolita quell’antipatica divisone segnata fra chi si accontentava della “minestra del convento” e chi voleva mangiar meglio. I camerieri non devono fare distinzioni, debbono servire tutti con lo stesso impegno. Per gli americani (…..) il trovare a bordo un servizio di cabina e di mensa organizzato con larghezza, con disciplina e, aggiungiamo pure, con tanta distinzione, è cosa che altamente li soddisfa.
Per chi vuol passeggiare vi è un ponte che misura in tutto il suo giro quasi un quarto di chilometro. Certamente la lettura è una delle più gradite e generali occupazioni per chi viaggia. Le biblioteche di bordo (quella del “Conte Grande” ha più di 1500 volumi) sono ricche di libri in varie lingue, scelti con opportuno criterio per soddisfare tutti i gusti, tutte le esigenze degli intellettuali. Ogni giorno la tipografia di bordo pubblica un “Corriere dell’Atlantico” colle più importanti notizie dei due emisferi. Sono notizie pervenute radiotelegraficamente. (…)
Altro svago di bordo è il cinematografo: e con molta opportunità, alle scene romanzesche o comiche, sono inframmezzate spesso riproduzioni di paesaggi italiani, gradito ricordo a chi da noi si allontana ed utile iniziazione per chi si predispone a visitare le nostre città con tutti i loro decantati tesori. A bordo, come si vede, non c’è tempo di annoiarsi.
La nave stessa appare, per molti, un lembo di patria galleggiante ed ambulante. Durante la sua prima permanenza nel porto di New York il “Conte Grande” non solo fu visitato da una folle enorme (trentamila persone in una sola giornata), ma tra banchetti, tè e feste da ballo non si ebbe un minuto di tregua e di riposo. In codeste varie cerimonie passò a bordo quasi tutta la colonia italiana e si può dire che in nessun’altra occasione, in nessun altro luogo la colonia sentì di potersi meglio radunare e riaffermare i vincoli della propria solidarietà nazionale.

Nel periodo precedente al primo conflitto mondiale, gli immigrati provenienti dal comune di Ischia dichiarano agli ispettori di Ellis come destinazione finale del viaggio New York.
Negli archivi della stazione la città di San Pedro in California compare legata esclusivamente al nome di Luigi Mascolo che, con i Carrese, è il pioniere dell’emigrazione ischitana nella cittadina della California.
Il primo passaggio di Luigi Mascolo a Ellis Island risale al 1896, appena quattro anni dopo l’apertura della stazione. Si è imbarcato a Genova sul “Kaiser Wihelm II” ed ha trentasei anni. Dichiara di essere già stato negli Stati Uniti ed è diretto a Los Angeles. Nel registro, alla voce “occupazione”, leggiamo countryman, ma il lavoro che svolge a San Pedro non è quello del contadino: egli è un compatriota, un cittadino americano. Il certificato di cittadinanza gli è stato rilasciato dalla Corte di Los Angeles il 14 novembre del 1889. E’ sposato con Brigida Carrese, sorella di Alessandro e Giovanni, la cui presenza a San Pedro è documentata intorno al 1880 come la prima presenza ischitana nella cittadina.
Nel 1906 Luigi è a Ischia con la moglie Brigida e i sei figli, Lucia, di quindici anni, Giuseppina, di sette anni, Anna e Giuseppe, di cinque anni, e Pietro, di tre anni. Ritorna a New York a bordo del “Prinzess Irene”, partito da Napoli. Per la prima volta, nei registri di Ellis Island relativi agli immigrati ischitani, compare il nome di San Pedro e non quello di Los Angeles. Sono questi gli anni in cui la cittadina sul Pacifico, grazie al potenziamento delle attrezzature portuali e della rete di trasporto ad esse connessa, diventa il fulcro economico dell’intera area costiera.
L’ultima traccia della famiglia Mascolo negli archivi della stazione reca la data 22 gennaio 1914 ed è interessante per più di un motivo. Luigi giunge a Ellis Island in compagnia dei figli, Lucia, che nel frattempo si è sposata, Anna e il piccolo Luigi, ma non della moglie.
Da notizie raccolte presso i familiari di Anna sappiamo che Brigida si è spenta a Ischia nel settembre dell’anno precedente e che la morte non è stata improvvisa. Quando s’imbarca a New York è già gravemente malata. Forse ritorna alla sua terra d’origine per morirvi. Questa ipotesi sembra essere suffragata dal fatto che anche i suoi congiunti, il marito Luigi e i cognati, Francesco e Maria, riposano nella cappella Mascolo del cimitero di Ischia, accomunati da un solo destino, comune peraltro a molti emigranti di prima generazione nell’impossibilità di recidere il legame con la propria isola.

Intorno al 1910 la corrente migratoria degli Ischitani verso San Pedro incomincia ad acquisire un’intensità significativa. Gli archivi di Ellis Island documentano, in relazione a questo fenomeno, un duplice movimento immigratorio: quello degli Ischitani che partono da Napoli diretti a San Pedro e, in stretta coincidenza, quello dei parenti, già immigrati in precedenza, che lasciano New York per la stessa destinazione. Questo secondo flusso migratorio, da una costa all’altra, è confermato dal cambio di residenza di quegli Ischitani che fanno da garanti per i congiunti che devono sottoporsi alle procedure d’ammissione nella stazione, per poi proseguire il viaggio alla volta della California.
Le radicali trasformazioni urbanistiche ed economiche, a partire dai primi anni del secolo, hanno fatto della cittadina sul Pacifico una delle capitali della pesca sulla costa occidentale. La prospettiva di poter continuare a svolgere l’attività di pescatore, piuttosto che cercare di sbarcare il lunario, adattandosi a mestieri diversi, è tra i motivi che concorrono a fare di San Pedro la destinazione privilegiata dagli Ischitani: un’altra Ischia, meta di un flusso immigratorio continuo che, negli anni a seguire, nonostante le parentesi belliche, non conosce flessioni.

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